Trenovembre
Non mi dispiace lavare i piatti, mi rilassa. La battaglia col miscelatore che getta acqua o troppo calda o troppo fredda per lunghi tratti mi diverte, mi trasmette un senso di casa che non diresti saper passare per delle tubature metalliche su cui si riflette la tua immagine deformata in un mostro oblungo. Ma non posso dire di saperlo fare bene; mi piace di più scegliere l’ordine in cui lavare le stoviglie e metterle ad asciugare: prima i pezzi grossi poi quelli piccoli, prima i pezzi più sporchi poi quelli di servizio, prima i piatti poi le pentole, prima le cose più vicine alle mie mani, poi quelle più lontane.
Sto passando con la spugna una scodella dipinta a fiorellini con tenui tinte pastello, la giro e sul culo ha scritto “fatta a mano”, con un carattere che tradisce un leggero spasmo del polso dopo la prima parola. Penso che non ricordo da dove venga quella scodella, non l’ho presa io. Devo averla rubata ai miei genitori, l’hanno portata forse con qualcosa dentro a un pranzo quando li ho invitati nella mia casa, poi l’ho lavata e l’ho tenuta. Da allora è lì, ci metto le patate dopo averle cotte, o l’insalata quando la preparo solo per me. È utile.
Mi mancano i miei genitori.
Salgo le scale del mio palazzo e so che appena metterò piede sul mezzanino alzerò lo sguardo verso il portone e vedrò mia madre sulla soglia, sorridente ad aspettarmi, con le dita giunte in una sorta di preghiera laica di ringraziamento per avermi ancora lì, e mi dirà ciao, le dirò ciao, mi chiederà come sto, e le dirò la verità a volte, una verità vacua altre, una bugia nei momenti peggiori, che non durerà più di qualche decina di minuti. Troverò già mio padre lì, sul divano, come ha iniziato a succedere da un po’, segno che sto diventando più assente io, o più sereno lui, non lo so, spero tanto la seconda, e mi saluterà come fa un amico più che un padre, perché avermi visto crescere deve averlo portato lì, al sapermi figlio ma volermi anche amico.
Avrò un nodo di timore ad abbracciarli e baciarli sulle guance, quelle scure e rilassate di mia madre e quelle piccanti di una barba di quattro giorni di mio padre, perché questa pandemia mi ha tolto la serenità di vedere due tra le persone più forti che conosca, me le ha fatte immaginare fragili, mi ha fatto temere di metterle in pericolo solo stando loro vicino col corpo, col respiro, e loro minimizzano non perché non ci credano, ma perché per noi avrebbero fatto di tutto, figuriamoci se, anche ora che tocca a noi prenderci cura di loro, non si farebbero contagiare in cambio di un abbraccio in più; e io so che poi cederò, e quell’abbraccio glielo darò, quel timore me lo ricaccerò in gola, e mi sentirò in colpa per averli visti così poco in questi mesi, anche se un po’ non potevo e un po’ non volevo per non rischiare, e un po’ pensavo che i miei inderogabili impegni trovavano una sponda tiepida e comoda su questa psicosi.
C’era una padella nera di ferro tutta bucherellata appesa in taverna fino a qualche anno fa, in cui mio nonno cucinava le castagne, che iniziavano a scarseggiare proprio quando cadeva il mio compleanno, e alle mie feste di compleanno non mancavano mai. Avevo trasformato le mie feste in lunghi palinsesti di animazione: lo spettacolo dei burattini, la caccia al tesoro, delle esibizioni musicali, di magia, qualunque cosa potesse intrattenere. Avevo questo velo sottile di timidezza e vergogna a fare qualunque cosa, ma bastava un niente che si rimuoveva come una pellicola e mi liberava in un delirio giullaresco, e quanto devo avere rotto i coglioni ai miei parenti in feste di compleanno grottesche, egocentriche, che amavo forse ancora di più programmare che eseguire, e non era tanto farmi guardare, ma era vedere che tutto procedeva secondo i piani, rispettava la scaletta, si atteneva agli orari. Avevo il controllo delle cose, e la mia famiglia me lo lasciava, attendendo che mi esaurissi, che lo spettacolo terminasse, e che andassi a letto soddisfatto del mio compleanno, finito per un altro anno. C’erano gli ospiti da salutare, le sedie da rimettere in ordine. I piatti da lavare.
È stato difficile condividere con i miei genitori il fatto di non stare bene, perché se da bambino piangi per farti ascoltare, da adulto piangi per non farti notare. Ho minimizzato, nascosto, ho dato loro pochi elementi per capire, perché le descrizioni del mio male atterrivano me per primo. Hanno sempre ascoltato, non sempre hanno capito, non sono sempre stati capaci di trattenersi; e solo ora, mentre non riesco a soffocare un abbraccio, capisco perché.
Non credo sia facile accettare che un figlio scelga di tenerti fuori dal suo dolore più cieco, e io mi rendevo conto che stavo cedendo loro il mio ombrello ma non potevo ripararli dai tuoni. Parlare non era facile, tenere a galla le cose nemmeno, cambiavano così in fretta, e al tempo stesso così poco.
-Cos’ha la mamma?- chiesi una volta al telefono a mia sorella, che mi rispose solo “Un figlio infelice”.
Tre parole scritte, senza il punto fermo, nessuna intenzione di caricare di colpe, solo una verità, una spiegazione cruda, neanche mezzo cucchiaio di miele.
Sono venuto al mondo un martedì di inizio novembre verso il finire degli anni Ottanta. La leggenda vuole che mia madre abbia tenuto duro per non farmi nascere il giorno dei morti. Ce l’ha fatta, per buona parte della notte, e al mattino ha mollato. Quest’anno il mio compleanno sarà di martedì.
Mi mancano i miei genitori.
Ho voglia di vederli, di raccontare loro come sono stato, di dire loro che ci sono stati, e che se non sarò mai più assente per proteggerli, né con loro né con nessun altro. Che mi dispiace di essere stato male, di averli fatti preoccupare; che il dolore che ho provato per loro mi è stato utile a imparare a governare il mio; che quando si compiono 33 anni le cose sono più complesse di far andare dritta la scaletta di una festa, e che avrei voluto tanto che, come quando ero bambino, potessero risolvermi loro quel problema, ma non era possibile, e se questo ha ferito me chissà quanto deve aver ferito loro. Ma adesso è quasi il mio compleanno, c’è una pandemia, ci vedremo per cena o per pranzo, e non vedo l’ora di dire loro che sto bene, stavolta anche pensandolo.
Loro capiranno che dico sul serio, e mi diranno che la scodella posso tenerla.