Senza guardare l’ora
Sono arrivato alla chiesetta con un accettabile ritardo di cinque minuti che il navigatore già mi aveva annunciato. Era una giornata splendida, un sole invernale frizzante e limpido scaldava il necessario a permettersi persino di aprirsi la giacca, dondolandosi in un tepore inaspettato. Nella geografia ancora oscura dei Colli Euganei il tragitto era sembrato mettere sotto una luce differente ogni cosa, come quando noti una macchia sul muro in casa che non avevi mai visto prima. Per la prima volta i colli non mi erano sembrati un labirinto alto e pretenzioso.
Ho parcheggiato l’auto in discesa, ho cercato senza successo qualche masso con cui bloccare le ruote e mi sono allontanato fidandomi del freno a mano e della retromarcia inserita.
Il sentiero che portava alla chiesa girava attorno al colle come una scala a chiocciola, e finiva su uno stretto spiazzo in cima che si affacciava sulla pianura. Si vedeva perlopiù una distesa irragionata di prefabbricati su un territorio organizzato ma brutto, eppure era una vista che in una giornata come quella assumeva una saturazione di colori che la rendeva gradevole. La chiesa si ergeva invece su un basamento di granito, su cui avevano scavato dei gradini ripidi.
Quando sono arrivato non mi sono bene reso conto di cosa stesse succedendo, se il funerale fosse già iniziato o meno; tutto pareva sospeso in attesa di un cenno a muoversi, senza che nessuno sapesse da dove aspettarselo. A vidimare la stasi si era messo di traverso anche il carro funebre, che mi ostruiva la via d’accesso alle scale; tentava di girarsi e fare manovra nello spiazzo, e i becchini da dietro, nel loro impeccabile completo blu, facevano gesti decisi ma composti all’autista del carro, già vuoto; la bara era dentro, in chiesa, ho capito che era già tutto iniziato.
Sono rimasto a guardare la manovra, macchinosa e difficile, con cui il carro funebre tentava di prepararsi all’uscita dal piazzale per raggiungere poi più facilmente il cimitero, pronto per la fine del funerale. La plancia dell’auto scandiva i secondi con un fastidioso bip intermittente, che riverberava nel bagagliaio vuoto e squarciava il silenzio placido di quello splendido sabato mattina di gennaio. I becchini giravano gli indici e facevano segni da fuori. Il momento si era ancorato a un presente meccanico e funzionale, l’occasione poco felice non contava più nulla, tutti guardavano l’auto come una storia, un’impresa sul punto di compiersi, un eroe per cui tifare; il rumore dello sterzo sui sassolini ci teneva così distanti dalla morte che ho aspettato che la manovra si completasse, e solo quando il motore si è spento ho salito le scale e sono entrato in chiesa senza guardare l’ora.