Pane comune

Marco Vezzaro
7 min readJun 21, 2019

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Bene o male ci si fa stare tutto sempre, devono pensare quelli che progettano i supermercati in centro, ricavati da locali che, lo vedi subito, sono nati per altro. Assomigliano a case, appartamenti, piccoli negozi, hanno due piani, le scale, spazi angusti nei quali qualcuno ha trovato una soluzione per farti riconoscere una grammatica che altrimenti, in sale progettate apposta, si riducono a cardo e decumano con le corsie. È curioso, ma in un sistema del genere in cui i reticolati collassano su se stessi e si distendono in corridoi labirintici, trovare qualcosa di preciso è più complesso che non in un grande supermercato dove basta alzare gli occhi e consultare una legenda spaziale che ti fa sentire una pedina in un tabellone; eppure i piccoli frastagliati supermercati del centro sono proprio quei luoghi in cui entri cercando due o tre cose mirate e precise, e poco importa uscire alla fine con un sacchetto da trenta o quaranta euro di cazzate che andrà incontro al suo destino di decomporsi nel tragitto fino a casa, o forse questo succede proprio perché la strada per arrivare allo scaffale in cui c’è ciò che cerchi fa posare i tuoi occhi su altri beni che non ti servono ma perché no, per stavolta. Un anno fa ricordo bene di essere entrato in un supermercato così, e averne varcato le porte senza avere nessuna volontà, nessuna necessità, ed era come se i miei occhi non riuscissero a posarsi su nulla; lanciavo la lenza del mio sguardo e questa andava oltre lo specchio d’acqua, arenata su una dimensione che solo poi, quando riuscii a mettere a letto la crisi depressiva in cui versavo, scoprii non esistere, non in quell’oltre sconnesso. Ma in quel momento era lì, si nascondeva dietro a ogni involucro di plastica, e ogni schifosa brodaglia o preparato parevano parlarmi una lingua che conoscevo o non riuscivo a comprendere, bisbigliavano tra loro per escludere me, e io del resto ignoravo loro, non mi interessava essere considerato. Non è da molto che nei supermercati si vende il pane, quello che raccogli con delle pinze dai cassetti infilandolo in buste che poi devi pesare ed etichettare, come si è sempre fatto con le verdure, con i guanti di plastica che finiscono nelle tasche dei pantaloni, e poi in lavatrice appallottolati. O almeno, io ricordo qualche supermercato frequentato da bambino, sono cambiate alcune cose, come le casse automatiche e il pane che prima era al banco, come nei panifici.

Sì, forse, ma non ne sono sicuro, quella volta ero entrato per prenderci il pane. Ho un panificio sotto casa, ti dà quella dimensione più umana, rustica, di una volta. Ci vai per prendere il pane e basta, è pane vero, non te lo etichetta nessuno. Quel giorno non mi interessava parlare con qualcuno, avevo già una bestia dentro che continuava a parlarmi, e io non la volevo sentire. È stato proprio il pane a far scattare tutto, perché nelle mie pause pranzo al lavoro ci vado spesso al supermercato, uno di quelli progettati e innalzati da una distesa di cemento, in cui hanno messo le cose come volevano, il pane è proprio in fondo a sinistra, e quanto tempo della mia vita ho perso a guardare con che pane farmi il panino del pranzo, per poi scegliere quasi sempre lo stesso, ma darmi l’illusione di aver scelto. Lì in quel supermercato del centro ho aperto un cassetto, ho preso un filoncino di pane normale, quel normale che non ti giri a guardarlo, con quella consistenza gommosa che se si spezza non sembra croccare, sembra piuttosto rompersi, ma in quel momento mi sono rotto io, e stringendo un filone di pane in mano mi sono messo a piangere lì, in piedi, perché un mio amico mi aveva detto da poco che sarebbe andato via, avrebbe cambiato, spuntando l’ultimo ramo del tronco su cui reggevo un senso di sfacelo, e lì di fronte a tutti quei cassetti di pane, tenevo tra le mani la mia esistenza improvvisamente insipida, perché il pane è pane, soprattutto quello del supermercato ha sempre lo stesso sapore, lo cuociono, lo surgelano, lo decongelano e lo scaldano, e lo afferri tiepido se sei fortunato, ma la sensazione presto se ne va e lascia spazio a una tela vuota e una croccantezza gelida. Tenevo il pane tra le mani, ma non ero lì, ero nell’altro supermercato, quello vicino all’ufficio, con il pane in fondo a sinistra, a pensare alle pause pranzo a cui non avrei più, mai più trovato un senso.

Mi sono accorto di recente che non mi sono posto il problema di come sono uscito da quel supermercato. L’ho comprato poi quel pane alla fine? O l’ho riposto nel cassetto con una crepa? Per quanto tempo ho pianto esattamente con un filoncino in mano? Qualcuno mi ha visto, o mi ha detto qualcosa? Lo volevo quel pane, o mi ha chiesto lui di raccoglierlo in mano per pormi di fronte al terrore di rappresentare un oggetto senza senso, che io avevo trasformato in una pausa felice, ma che altro non era che farina di grano messa ad alte temperature in un forno industriale, e forse in quel momento me lo stava confidando, rivelandomi che dietro alla mia serenità non c’era nulla di più, si poteva sbriciolare e dare ai piccioni, e nessuno avrebbe colto la differenza?

È stato più di un anno fa, e se non ricordo come sono uscito da quel supermercato è perché credo di essere ancora lì, e per quanto a lungo e forte l’ho stretto quel filone si deve essere ridotto in più briciole, non lo so se lo posso riporre ora, forse lo devo prendere per forza come quando rompi una bottiglia di vino. Mi è appena ricapitato di aspettare il senso delle mie giornate al nastro del ritiro bagagli e non vederlo arrivare, e la depressione ha fatto più male, ha colpito più forte, aspettare non è bastato. “Se sei venuto qui è perché non ce la potevi fare da solo”, ho ascoltato il medico dirmi che gli psicofarmaci non fanno male se li si prende come si deve, e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che di lì in poi la mia felicità sarebbe potuta dipendere dall’aver sciolto o meno delle gocce amarognole in un bicchiere di plastica ogni giorno alle sei del pomeriggio, e mentre il medico mi assicurava che no, non è così, che il mio cervello non è un motore guastatosi per sempre, ha bisogno solo di fare contatto e ridare corrente, afferravo in mano la ricetta e non ci credevo al mio nome scritto lì, mi chiedevo come ci fossi arrivato, come fosse successo di aver passato più di un anno a piangere con del pane in mano in un supermercato del centro senza nemmeno rendermene conto, senza che nessuno mi dicesse nulla, fosse anche avvisiamo la gentile clientela che il supermercato sta per chiudere vi invitiamo gentilmente ad avvicinarvi alle casse.

Si usa dare un nome alle cose nuove, e io non so se ancora ho dato un nome al fremito che ho provato quando per la prima volta sono entrato in una stanza costruita e concepita per farmi parlare con un estraneo, ci sono stato solo una volta finora ma la potrei disegnare, perché raccontare come sono finito in quel supermercato e ci sono rimasto mi ha costretto a posare gli occhi sul pavimento, le pareti, i quadri, le tende a frange che si muovono su sé stesse con il vento, le poltrone, il tavolino, perché non è sempre facile guardare negli occhi una persona che ascolta come sei finito in frantumi, se non altro perché all’episodio di quel filone in mano, mentre in lacrime immobile non riesco a pensare che alla mia incapacità di dare significato persino a un panino, non ci sono ancora arrivato. Mi ha detto, tra le pochissime cose nel nostro primo incontro, di non preoccuparmi perché la nostra mente non va in ordine cronologico, e che fare salti logici, temporali, di nomi, di luoghi, di sacche stagne della nostra vita è normale, e mentre io a queste sacche davo le sembianze dei sacchetti d’acqua in cui ti consegnano i pesci rossi quando li vinci al tiro a segno, tentavo comunque di darmi un ordine e costruire una mappa navigabile per la mia psicologa, perché dovrà pure capirci qualcosa della mia vita se non l’ho capito io, ma non è detto che a lei interessi la storia, chissà quante mappe di quante vite dovrebbe saper navigare, forse ricava più informazioni proprio dai miei salti logici, dalle parole che uso, il disordine. Poi sono uscito, come risputato nella realtà, ho fatto due passi e sono entrato in un bar, ho ordinato una brioche alla marmellata. Faceva già un caldo afoso, i portici danno su una via trafficata, sembrava tutto muoversi a una velocità settata come un trenino giocattolo, e io lo guardavo da fuori nel primo giorno in cui la mia bocca aveva dato una forma e una sintassi a una melma pesante che ha finito per bersi tutta la mia serotonina, è stato come non essere me.
Ho bevuto anche un caffè, e berlo da soli significa che almeno nessuno ti dirà che se ne andrà presto, secondo una grammatica che ormai hai imparato.

Non vorrei più pensare che anche in me bene o male ci farò stare tutto anch’io, come fosse questione di disporre qualche scaffale, e tutto ciò che mi sono deciso a fare l’ho fatto solo per paura, paura di stare di nuovo male, o anche peggio, con il fischio nelle orecchie di un vero colpo che deve ancora arrivare perché lo so che non mi è ancora successo niente di che, la paura di non poterlo confidare a nessuno senza mettermi nella condizione di disprezzarmi. Dovrei andare alle casse, prima di arrivarci e non potermi permettere il totale, so che conserverò lo scontrino, per leggerci tutte le volte che non riesco a respirare “Pane Comune”, e sentirmi bene.

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Written by Marco Vezzaro

Copywriter & Editor | Volevo fare il calciatore ma è troppo tardi, vorrò fare lo scrittore fino a quando non sarà troppo tardi | http://marcovezzaro.com

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