Ortiche
Gira la chiave, scosta gli scuri e apri la porta a vetri; subito a sinistra c’è l’interruttore generale, alzalo. Ora c’è corrente, puoi accendere la luce.
Il frigo ha gli sportelli aperti, accostati, è spento. Ruota la manovella, mettila sul 2, ora funziona.
Ora apri le ante sotto il lavandino, le abbiamo riparate. Gira la leva gialla perpendicolarmente al tubo, ora dovrebbe andare anche il gas. No, non va. Bisogna andare in terrazzo, c’è un cassone di metallo con la bombola del gas, va girata una manovella anche lì. Le chiavi del cassone sono nel solito quadretto con la litografia che si apre a libro. Fatto, ora c’è anche il gas.
Di nuovo sotto al lavandino, gira la manovella rossa; ora scorre l’acqua. Prova. Scorre. Ottimo.
Manca l’acqua calda; attacca la spina del boiler in bagno e gira anche lì una leva sul tubo.
Torna in cucina, a destra dell’ingresso, sotto ai quadri di latta coi segni zodiacali c’è il termostato, giralo. Niente, è inutile. La caldaia centrale non è ancora accesa, è presto, anche se fa già freddo per uno che vive in città.
E quindi è così, una casa va fatta partire, come un motore, come un fuoco, e la fine della tua infanzia coincide con il momento in cui ci entri senza trovarla accesa, la senti che odora di chiuso e spento, immutato, anche se gli intervalli dei tuoi ritorni si sono dilatati sempre di più, e da un lato è rassicurante la noia di vedere che il tempo lassù passa più lento, o almeno più lento di te, dall’altro ogni cambiamento è una dissonanza nello spartito, e fa male come un mutamento repentino.
Stoner la si sorprende sempre da dietro, ma è talmente stanca e sola che ormai non si accorge quasi più del tuo arrivo. Qualche tornante dopo Enego, sull’altopiano dei Sette Comuni, la strada a curve cieche si apre su una lingua di terra che sembra distendersi come un ponte levatoio sulla valle, e su quella striscia è cresciuta come un’ortica selvatica Stoner, 1042m sul livello del mare se si conta dalla piattaforma della chiesa e del campanile, poi la strada scende e un cartello a metà segna 1037. Un po’ più avanti, un altare con una madonnina apre un bivio che cinge in un abbraccio il cucuzzolo di una collina, l’altra estremità del ponte levatoio, e genera il Giro della Montagnola. Negli ultimi anni di vita di mia nonna Anna, il Giro della Montagnola ha rappresentato la sua ultima passeggiata di piacere, una camminata sempre uguale a sé stessa punteggiata da boschetti inospitali e umidi, fattorie, apicolture con rivendita di miele, cani da pascolo troppo esausti per accorgersi del tuo passaggio, e un panorama sempre maestoso e inquietante sul gigante viadotto della Valgadena, che ai tempi in cui eravamo bambini si diceva essere il più alto d’Europa, non ho mai verificato ma all’epoca mi pareva verosimile. Il Giro della Montagnola deviava su una salita ancora oggi ostica, per un viale di un’eleganza propria del vestito che si indossa nella bara, e infatti portava al cimitero.
Per noi, ancora troppo inesperti per considerare davvero la morte come una parte del nostro mondo, la salita tra i pini fino alle tombe era un’escursione trasgressiva, ma poi ci bastava riscendere il viale quasi incapaci di controllare il nostro passo, la gravità e l’inerzia, lasciarci alle spalle lo sguardo patito della madonnina e tornare alle case, ai nostri fuochi accesi, agli angoli nascosti dei giardini, le case sull’albero o anche solo sul cespuglio, ai saliscendi delle strade per i Lessi, alle leggende sui fantasmi che infestavano la chiesetta di Godeluna, ai sacchi di monete da cinquecento lire spesi per il flipper e Metal Slug al bar, e il pensiero della morte, della fine, della chiusura, del Vendesi non ci sfiorava, perché tre, quattro, cinque estati di fila erano già l’immutabile, il per sempre, non c’era bisogno di controprove o dubbi. Tutto sarebbe rimasto così, la nostra vita era un trenino perpetuo che ripassava sempre per le stesse stazioni e non vedevamo come un’estate potesse davvero risultare diversa da quelle che l’avevano preceduta.
In cucina sollevo l’anta dello scolapiatti e li rivedo ancora lì: un servizio di piatti, tazze e tazzine trasparenti di colore giallastro ottone, quel tipo di esperienza visiva che sarebbe in grado di farmi ritrovare all’istante un orientamento perduto. Vedo quei piatti, quelle tazze e so dove mi trovo, chi sono, posso ricalcare la mappa dei miei ricordi e segnarne confini e rilievi, vederci il latte al nesquik con delle rocce di biscotti erosi galleggiarci, e dall’altra parte del tavolo il corpo massiccio della nonna che toglie il pentolino dal fuoco e mi chiede se ne voglio ancora. Io sono quelle tazze, tanto quanto sono un mancino di piede, o il mio neo sotto l’occhio sinistro, e finché quelle tazze esistono esisto anch’io e tutti i miei giorni vissuti a Stoner, ad aspettare l’autunno e la scuola.
Nella camera in cui dormivo la tappezzeria a quadretti rossoneri ha ancora quella luce scura che alle sei del mattino entrava tenue ma cocciuta dalla finestra, e la nonna già sveglia da ore mi diceva che se volevo andare a funghi col nonno dovevo alzarmi ora, perché si stava facendo tardi, e io mi alzavo perché lo avevo promesso al nonno, o perché guadagnarmi il diritto di accompagnare il nonno nei boschi faceva di me l’ometto che volevo essere, ma altre volte non c’era ometto o promessa che tenesse per alzarmi alle sei dal letto, e dalla camera sentivo la nonna rimproverare il nonno che “no voe, l’è massa picoeo pa fare ste ore, te voi mia capirlo?” e facevo appena in tempo a immaginare il volto ornato del senso di colpa del nonno per aver provato a svegliarmi, prima di ricadere in un sonno testardo. Ma era solo una mattina consacrata al riposo, chi mi avrebbe mai portato via tutto questo? Sarebbe bastato andare a letto un’altra sera, svegliarsi un’altra mattina, e fare la scelta giusta. Aprire gli occhi, vedere il manifesto della corrida degli anni 70 in cui mia madre aveva visto un torero morire incornato pendere sul muro accanto alla mia testa, capire “sei Marco, sei a Stoner, è estate, tutto è come sempre” e sarei uscito con la mia piccozza da bambino, a usarla per prendere a picconate i tronchi morti e fradici, più che per sostenere una camminata troppo acerba per avere bisogno di sostegno.
La casa è ripartita, esco a controllare tutto il resto. Stoner è talmente piccola, raccolta e desolata che non fa davvero differenza il fuori e il dentro casa, ma è come se il tuo appartamento fosse una stanza di un’abitazione più grande, a cielo aperto, di cui conosci ogni angolo, difetto, nascondiglio, disfunzione. Di fronte c’è ancora la fattoria, ma non c’è più l’aia con le galline, dove con la nonna buttavamo i resti del pranzo, per vederle precipitarvisi e litigarseli, e io assistevo alla scena come se ci avessi scommesso soldi.
Ma poi, nulla.
Il bar ha le persiane serrate, le insegne scrostate, un cartello di un’agenzia immobiliare lo marca come in vendita ma non sembra crederci troppo. La casa a fianco è in vendita pure quella. Quella a fianco ancora si affitta.
Vorrei stupirmi, ma con che coraggio, se penso che lo stesso cartello “Vendesi” campeggia anche sullo scuro di casa mia, che ho appena aperto per lasciare entrare un po’ d’aria.
La lingua di terra sull’altopiano, tra Enego e Gallio, è un punto di osservazione su una valle in vendita, a cui nessuno sente più di appartenere. Il modo in cui la strada sta sospesa tra burroni gentili e strade che tagliano i monti, da cui vedi e senti arrivare auto e motociclette a chilometri di distanza, mentre il paesaggio resta congelato, è una sensazione di stasi che non si può rifare con le parole, ma se mi appendo a quella strada come un panno ad asciugare comprendo che Stoner non è un baule dei miei ricordi che posso ritrovare sempre uguale nella mia soffitta, per piangere o rallegrarmene, ma è andata avanti senza di me, pur se a passi lenti, e la ritrovo quasi morta come una pianta a cui ho dimenticato di dare da bere.
Riprendo l’auto, faccio la salita fino al campanile e torno verso Enego, ma prima di arrivarci svolto a sinistra e salgo su in direzione di Valmaron e la piana di Marcesina. È dove il nonno tentava di portarmi a funghi, dove ho fallito nell’imparare a sciare, se Stoner è una casa diffusa, la piana di Marcesina è il suo giardino.
Per chi non ci è mai stato, la piana di Marcesina non assomiglia a niente di esistente; non è né bosco né prati, non è collina ma non sembra montagna, è una pianura che d’inverno si riempie di sciatori poco esperti e d’estate è abitata da pascoli, piccoli gruppetti di umani che fanno barbecue, cercano funghi, ma si disperdono in un’immensità che non è più di questo mondo. Il cielo è grigio acceso quando mi si staglia davanti, e mi sferra una frustata violenta che mi lacera sul colpo e poi inizia a bruciare piano, sempre di più sulla colonna vertebrale. Ai bordi della strada, cataste di tronchi ordinati con rigore come pastelli in un barattolo riverso; sullo sfondo, i boschi non ci sono più.
Ci sono fotografie di me sul divano verde smeraldo che tuttora si prende la scena nel salotto della mia casa di Stoner, se le giri c’è scritto “Stoner, 1988”, io ho meno di un anno in quelle fotografie, e da allora al 2005 ogni estate vedrò quella casa già accesa, scenderò quelle salite, berrò latte da quelle tazze, imparerò a orientarmi tra quei boschi, costruirò una mia sintassi montana che poi lascerò arrugginire, perso tra i miei affari in pianura, ma non avrò mai il coraggio in quegli anni di mettere in discussione i miei punti di riferimento nella mappa. È il 2005 l’anno in cui la mia esistenza impatta con la presenza della morte, e il cimitero come d’incanto non è più un album da sfogliare in casa d’altri, ma vi si aggiunge una pagina con nomi, volti, ricordi che conosco. Poi, com’è come non è, un impatto forte spacca frammenti e li proietta chissà dove, li ritrovi a metri di distanza dopo giorni, anni, anni in cui hai perso pezzi e hai lasciato che si perdessero, come se un impatto andasse lasciato così perché non si può riparare. Ma che una tempesta, in un giorno preciso, un qualsiasi 28 ottobre dell’anno 2018, trent’anni dopo la tua prima foto sul divano smeraldo, cancellasse in un colpo solo boschi che erano lì dal 1988, e anche nei secoli prima, questo no, questo va ben oltre il nostro ingenuo lasciarci alle spalle il cimitero, la madonnina, la montagnola, le case e i bar che pensavamo non sarebbero mai stati venduti, che pensavamo sarebbero sempre appartenuti a qualcuno. Ritorno verso Stoner, la sorprendo da dietro ma stavolta si accorge di me, mi saluta con due gocce di pioggia, mi dice che le cose non possono rimanere uguali, e non importa granché che le curiamo o le dimentichiamo.
Un giorno, in giardino, per recuperare una pallina che avevo lanciato troppo lontano ed era finita sotto a un terrazzo, mi lanciai in mezzo a delle ortiche, mi bruciarono la pelle e cominciarono a comparirmi le bolle. Urlai piangendo al nonno “Fa male!” e lui non ci provò neanche a spiegarmi, ribatté soltanto “Fa bene.”, perché io non vedevo che l’adesso, e lui era già rassegnato al dopo.