La sala d’aspetto

Marco Vezzaro
5 min readMay 6, 2019

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Avevo preso l’abitudine di farmi la colazione salata ormai da un po’ di tempo, perché l’avevo scoperta viaggiando, e mi era sembrata una cosa così europea, così adulta. Basta con le merendine del cazzo, le creme spalmabili, le marmellate che mai mi erano piaciute, basta con il latte coi cereali, gli yogurt alla frutta. Mi svegliavo, mi facevo un toast e mi friggevo un uovo in padella con un po’ di sale, pepe e origano, mi facevo un caffè e se proprio mi volevo bene c’era anche un po’ di succo d’arancia di quelli chimicissimi. Che richiedesse una vera preparazione, per quanto semplice, invece che essere un punto a sfavore della colazione salata mi sembrava invece parte dell’essere adulti, in qualche modo mi parlava del mio futuro, di ciò che volevo diventare domani; soprattutto, credo mi parlasse per contrasto alla vecchia colazione: ogni affondo nel toast sporco di tuorlo arancione era un «hai chiuso con quelle cazzate da bambinetto, guarda come sei adulto adesso». E molto adulta era anche la ragione per la quale, dopo una colazione sostanziosa, stavo guidando verso l’Ospedale, lungo una strada rettilinea a due corsie che sembrava voler rincorrere il canaletto che costeggia per una trentina di chilometri in direzione di Treviso. Quel paesaggio è nel mio vocabolario visivo la definizione esatta di pianura, intesa non come una distesa verde lussureggiante, ma come una distesa punto, senza il benché minimo accenno di rilievo a increspare l’elettrocardiogramma. Sul momento non mi preoccupava granché il tampone uretrale che stavo andando a fare, ma capii dopo che ero così sereno perché non avevo veramente idea di cosa fosse un tampone uretrale, o meglio, non ero consapevole che le superfici tamponabili potessero spingersi così in dentro. Quindi guidavo sereno, sul sedile del passeggero invece che un passeggero sedeva l’impegnativa del medico, il caffè cominciava a farmi effetto, la mattina con il cielo coperto, di quel bruciato che fa venire le foto con la pelle bianca, sembrava uno spettacolo che mi ero negato troppo a lungo per il piacere di stare a letto fino a tardi, per svegliarsi con già la testa al pranzo, e cominciavo a desiderare una vita più regolata, con meno eccessi, notti in bianco e mattine gettate via.

Sentirsi adulti, si diceva. Sedersi a un tavolo, pensare ok, ho finito gli studi, ho tutto in testa ma non riesco a dirlo, pagina bianca sulla scrivania o sul computer, ma da qualcosa bisognerà pure iniziare, quindi chi sono, chi voglio essere, cosa voglio fare, in che modo questa cosa mi farà guadagnare da vivere, quanto è importante guadagnare e quanto fare una cosa che mi piace fare, quanto essere realisti e quanto idealisti, qual è la differenza fra essere adulti ed essere vecchi, qual è l’età giusta per farsi queste domande, e se era prima di oggi farsele ora è sbagliato perché tardi o comunque il treno aspetta tutti se lo rincorri? Le mattine svuotate del loro significato quando non vai più né a scuola né all’università diventano un oggetto che hai desiderato a lungo di avere tutto per te, e ora che finalmente ce l’hai ti rendi conto che non sai benissimo cosa fartene, o almeno ogni mattina vorresti fosse il giorno zero di un qualcosa che ti porterà lontano, ma il giorno zero è roba per tutti, il problema vero sono i giorni uno, due e tre, quelli subito dopo l’inizio, senza la gioia della prima pietra e senza nemmeno il colpo d’occhio che ti dice Oh dai, sta venendo bene, è quasi fatta. Sedersi a un tavolo, progettare qualcosa senza una valutazione, un programma da frequentante o da non frequentante, perché il programma lo devi fare tu anche quello, e mai la paura che qualcuno esca da una porta e ti chiami per cognome, e stava succedendo lì, all’ospedale, Ah già, il tampone uretrale, sì sono io

Si accomodi

Grazie

Ha mai fatto questo esame

No

Capisco, posi pure la giacca e la borsa, si slacci i pantaloni per piacere.

No un tampone uretrale non sapevo nemmeno come iniziasse, tant’è che mi stupii dell’assenza di un lettino su cui stendermi, perché ogni volta che si va dal medico ci si stende, bene o male, no? E invece no, ero in piedi con aria ebete e i pantaloni slacciati e abbassati, e di fronte a me questa infermiera sui cinquanta che aveva estirpato per professione ogni traccia di imbarazzo mi chiedeva di abbassare anche le mutande, io invece, dilettante, l’imbarazzo dovevo eliminarlo con il linguaggio del corpo, mostrandomi sicuro, disinvolto, senza paura, e prima di poter dire «a» scoprivo nel modo più brutale possibile che un tampone uretrale è una signora di cinquantanni circa che mentre ti parla del tempo intinge un cotton-fioc in una boccetta di non so che liquido e poi te lo ficca proprio dentro al cazzo, una, due e poi tre volte con un colpo secco come quello della pala per prendere la pizza e infilarla in forno senza disfarla, e sei talmente poco abituato a farci entrare le cose lì dove di solito le vedi uscire che il dolore ti impedisce persino di urlare, e riesci solo a trasalire, anche perché c’è la faccenda imbarazzo da domare. Ma che importa, l’infermiera ha già finito, in due secondi ti ha insegnato cosa succede a percorrere il tuo corpo contromano e non ti resta che portare le mani al volto.

Uscendo dall’ospedale camminavo come un pinguino, alla colazione non ci pensavo più, al brivido del mio futuro professionale e personale tutto da scrivere neppure, rimontando in auto il sedile passeggero era vuoto e avrei tanto voluto sedermici io, meno adulto ma più concentrato sul bruciore che mi veniva dal cazzo, e farmi portare indietro per quel rettilineo sul cielo biancastro. Erano solo le 11 del mattino, ero sveglio da 4 ore ormai, guidavo verso casa tramortito. Cosa farò delle prossime mattine? Ho un talento da qualche parte da far fruttare? Non sto facendo abbastanza, lo so: come faccio a fare di più, e come faccio a saperlo? In effetti, progettare era l’anticamera del diventare ciò che volevo, e nelle anticamere ci sono sempre rimasto a lungo, aspettando gli esami all’università o all’ospedale, prima di sentirmi chiamare per cognome e chiudere di scatto gli appunti. Poi di fatto di mille pagine studiate le domande erano due, quasi sempre le più logiche, o due affondi di cotton-fioc nel cazzo tanto per fare in fretta e levarsi di torno l’imbarazzo.

Mi sorpresi di me stesso osservandomi nei giorni dopo quel tampone uretrale. Pensai che forse era il momento di costruirmi un curriculum fatto bene, che potevo iniziare a raccontare in giro che qualcosa la sapevo fare, pensai che le mattine se iniziavano alle otto per qualcosa che mi ero scelto non erano poi così male, e la colazione salata poteva aiutare, che se avevo un momento della vita in cui potevo costruire qualcosa di mio senza essere disturbato era proprio quello, e mi sorprendevo a non avere paura. L’unica cosa di cui avevo paura in quei giorni, ed era terrore puro, era andare a pisciare.

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Marco Vezzaro
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Written by Marco Vezzaro

Copywriter & Editor | Volevo fare il calciatore ma è troppo tardi, vorrò fare lo scrittore fino a quando non sarà troppo tardi | http://marcovezzaro.com

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