Gigante rossa

Marco Vezzaro
35 min readNov 14, 2023

Entrò in quella scuola per l’ultima volta e lo sapeva, lo aveva già deciso. I muri di cemento dipinti di neve sporca parevano accartocciarsi su di lui mentre percorreva il corridoio con le piastrelle color sangue rappreso sul cuscino, e si era immaginato per cinque anni quel momento, chiedendosi quale terrore avrebbe provato nell’andare verso l’orale di maturità, ma la verità era che ormai si sentiva prosciugato anche della paura. Si era chiesto che razza di estate fosse quella. Da che ricordava, le scorse diciotto estati erano state tutte il momento da aspettare, e aveva cominciato a credere che il vero senso di un anno fosse dividerlo nella sua metà esatta. I giorni più belli erano attorno al quindici di giugno, quelli in cui cominciava ad avere la sensazione di avere tutta la vita davanti, anche se il concetto di vita coincideva con un concetto più semplice di giornate in cui non fare un cazzo, attardarsi a letto con il liquido che bagnava le retine che si seccava e creava le crosticine gialle, segno di un sonno andato come si deve, e non sporcato dalla più greve maledizione per una persona della sua età, la sveglia presto al mattino per la scuola. L’estate, come un’esplosione, dilatava gli spazi temporali e non restava che riempirli di cose, sentendo già quel senso di scarsità del tempo che lo rendeva una moneta preziosa, forse la vera moneta rispetto a quella letterale, che tanto era poca e non ancora dipendente da lui, più una specie di benedizione calata dall’alto, per la precisione dalle mani di sua madre che gli elargiva la paghetta. Giugno pareva depositare sul suo conto un bonifico di tempo fuori di testa anche solo per pensarci, e allora lo si poteva sperperare in attività belle, piacevoli, o anche inutili, e per questo belle e piacevoli. Il quindici di giugno dava il via a quel paio di settimane in cui i confini temporali perdevano di senso, e bastava poco per svegliarsi avendo dimenticato che giorno fosse, dove ci si trovasse. Il primo di luglio poi celbrava ogni anno il grande rito: l’anno si spezzava in due parti uguali come un toast, e la seconda cominciava con due mesi abbondanti di tempo da impiegare come meglio credeva. Per quasi tutti i suoi primi diciotto anni alcune di quelle settimane le aveva passate in vacanza con la famiglia. Prima perché sì, poi perché in quel momento di transizione in cui vorresti essere ovunque tranne che con i tuoi, ma a dispetto di quel che pensi non hai la minima idea di come cavartela da solo; le ultime volte aveva trovato il modo di rendersi talmente repellente e insopportabile da riuscire nel non farsi neppure invitare in vacanza con i suoi. Mamma e papà avevano messo in silenzio l’idea che forse non sarebbero mai più andati al mare con il loro figlio, e per quanto questa potesse essere un’altra ferita lacerante su tante cicatrizzate, a guardare il breve termine meglio così che dover fronteggiare un ragazzo con una pubertà che si attardava come un ospite troppo ubriaco per potersene tornare a casa, in oscillazione tra l’isteria e un fare misterioso che doveva renderlo interessante solo a sé stesso, e forse nemmeno. Così le estati erano davvero diventate una tela vuota da scarabocchiare all’infinito, ma con lo strano fenomeno astronomico per il quale l’infinito è sempre un po’ più breve dell’anno prima, come se qualcuno ne stesse grattando via i bordi, ed era difficile capire quanto perché anche una frazione dell’infinito, da quel che ne capiva, dava sempre infinito.

Perciò quell’estate pareva finita ancora prima di cominciare. Tanto per gradire, il giorno prima dell’ultimo giorno delle lezioni, il 9 giugno, Vittoria l’aveva lasciato, per la seconda volta, e tutti e due sapevano che era quella definitiva. La coincidenza doveva essergli suonata metodica come una scadenza contrattuale: finito il liceo? Finita la relazione. Una firma qui per piacere. Veniamo a riprenderci la strumentazione entro l’inizio degli esami. Sì tutta, s’intende, compresa quella emotiva.
In quella fase di fragilità, la domanda che secondo lui aveva senso farsi era che razza di ragazza ha l’idea di mollarti giusto prima degli esami di maturità. Il suo ragionamento era che ci fossero delle finestre adatte per farlo, dei momenti propizi per fare del male a qualcuno; si vendemmia a fine estate, si innaffiano le piante quando non ci batte direttamente il sole, si lascia il ragazzo in momenti adatti a farlo, ma per carità di dio non prima della maturità, dai. Così si era riempito la testa di scenari in cui avrebbe affrontato quei dodici giorni prima degli esami con Vittoria ancora al suo fianco, che lo avrebbe confortato e capito, si sarebbe fatta scivolare addosso le sue lamentele e le sue paure, e d’altro canto lui sarebbe stato ben felice di restituire in pieno il favore l’anno dopo, con una maturità acquisita, perché secondo lui era per questo che la chiamavano “Maturità”: una volta passati gli esami diventavi una persona solida, che poteva elargire insegnamenti e dire cose sagge e variabilmente irritanti come “ce la farai”, “stai calma”, “ci sono passato” e “pensa a chi sta peggio”. Vittoria invece non aveva aspettato, o forse non ce l’aveva fatta ad aspettare una scadenza che Marco aveva invece dato per scontata. Tenere un segreto con lui era piuttosto facile, e non perché fosse un sempliciotto. Ma bastava conoscerlo un pochino per rendersi conto del fatto che fosse un talento creativo nel mentire a sé stesso, a trovare la via più illogica per spiegarsi dei segnali inquietanti, e mentre la loro storia procedeva in una secca di entusiasmo, fiducia e parole, la strategia di Marco era duplice: da una parte si era convinto che il problema di Vittoria fosse molto serio, ma che non avesse in alcun modo a che fare con lui, tutt’altro; lui, appena si fosse liberato di quella seccatura degli esami l’avrebbe salvata da sé stessa e lei gli sarebbe stata riconoscente in eterno, perché nessuno avrebbe mai più fatto una cosa così carina e dolce per lei. C’era solo da avere qualche giorno di pazienza, un paio di settimane.
Dall’altra, corroso dall’ipotesi che il silenzio e la freddezza scesa tra loro potesse avere una spiegazione diversa dal desiderio di essere salvata senza osare chiederglielo, le domandava cinque o sei volte al giorno se fosse tutto ok, se qualcosa per caso non andasse. Era una delle sue doti più grandi quella di tramutare uno “sto male” in un “sicura di star bene?”, e ne aveva perfezionato la tecnica in quegli ultimi mesi. Perciò incassava dei non-ho-niente-sto-bene-è-tutto-ok sempre meno convincenti, che sempre più alimentavano quel circolo indagatorio, e mentirgli era diventato inutile, ma anche l’unica cosa possibile, una carta ben più efficace che mettere sul piatto un problema.
Fino al giorno in cui non aveva neppure dovuto chiederglielo che era stata lei, con un volto ormai trasfigurato dalla stanchezza e da un distacco evidentemente già elaborato, a dirgli “qualcosa non va, più di qualcosa in effetti”. Non ci fu bisogno di discorsi o di motivazioni, entrambi le sapevano già, ed erano le stesse di quando si erano lasciati un anno prima di ricascarci, anche se non era proprio così, ma non lo avrebbe saputo prima di qualche mese. Avevano appena slegato le loro bici, incatenate assieme a uno di quei portabici che sembrano fatti apposta per rendere il più difficile possibile l’ancoraggio, quando lei aveva introdotto il tema. Lui aveva tentato di minimizzare, ricondurre tutto al “momento complicato che stiamo passando”, dove per “stiamo” intendeva gli esami che toccavano a lui soltanto; ma dal suo sguardo ormai insofferente, e dal modo in cui respingeva come gomma tutti i suoi “vedrai” aveva capito che sarebbe finita come quel pomeriggio di mesi prima, e che sarebbe tornato a casa single, eppure l’unico pensiero lucido che riusciva a fare era che Vittoria avesse aspettato l’apertura della catena delle bici per dirglielo, forse temendo che lui le avrebbe lasciato la bici incatenata come protesta per essere stato lasciato. In realtà, se n’era andato senza scenate e senza insistere troppo, incredulo, proprio per la questione del tempismo: la scuola finisce domani, gli esami sono tra una dozzina di giorni e questa mi lascia. Non può essere una coincidenza, pensava. I casi erano due, rispondenti a due teorie differenti, a cui aveva anche dato un nome: la teoria cosiddetta “del male minore” prevedeva che Vittoria avesse scelto quel giorno per lasciarlo perché era meglio rovinare un giorno felice che peggiorare un giorno già triste e doloroso, e nessun giorno è più felice dell’ultimo giorno di scuola per una persona che la propria scuola la odia fin sotto le viscere. Questa è una teoria soggettiva, che però a seconda del soggetto finisce per ribaltarsi del tutto, perché per certe persone il male minore è una concentrazione di più mali in un determinato lasso di tempo che costringono a una scala di priorità, e Marco pensava che esistono soltanto due categorie di sofferenti: chi cura la tristezza con la felicità e chi con altra tristezza, e lui faceva senz’altro parte di quest’ultima tipologia. Perciò la “teoria del male minore” era un grosso equivoco e non si dava pace per il fatto che Vittoria avesse preso una cantonata simile nel decidere come ferirlo il meno possibile.
L’altra teoria, quella a cui lui credeva di più, era la cosiddetta “teoria della scadenza”, secondo la quale Vittoria aveva approfittato di una cesura importante nella vita di lui, la fine del liceo, per dare un taglio netto anche al loro rapporto, lasciandogli così il maggior tempo possibile per elaborare il lutto e preparare lo stesso gli scritti e l’orale. Entrambe le teorie, purtroppo, implicavano la premeditazione. Ci aveva pensato mentre tagliava una nocepesca, o pescanoce, il suo rito estivo della mezzanotte dopo che tornava a casa. Mangiava solo nocipesche o peschenoci perché Vittoria odiava le pesche quelle normali, quelle pelosette, le chiamava appunto “pesche pelose” e poi faceva una smorfia di schifo seguita subito da un sorriso. Nulla gli parlava di estate come il fatto di tagliare in pezzi irregolari una nocepesca o pescanoce sbattendo ad ogni fendente la lama sul piattino e producendo un tintinnio secco nel silenzio della sua cucina coi genitori già a letto, e mangiarla come fossero patatine.
Quella sera mentre teorizzava postume le scelte di Vittoria non era arrivato a tagliarla, la pescanoce o nocepesca era sul piattino, era priva di senso come tutto attorno a lui che la guardava immobile, e si era sorpreso a piangere. Il rituale si interruppe per sempre quella sera, e da allora nel resto della vita le avrebbe chiamate, in modo più pulito, pesche.

Schierata sui banchi dell’aula magna, la commissione d’esame lo aspettava composta per intero dai suoi professori, ad eccezione del Presidente, un preside di un altro istituto che non aveva mai visto prima, un signore alto e secco, snodato per linee spezzate e con una testa disegnata a tratti grossi e decisi senza stondature, i capelli pareggiati come un prato grigio.
Era il 4 luglio e Marco si presentava all’appuntamento di cui per tutta la vita aveva avuto più terrore con una tranquillità e una rassegnazione tipiche di chi sente di non avere più nulla da perdere, mormorando tra sé e sé che doveva essere questa la maturità forse: non la saggezza ma il disvelamento, l’epifania di non essere sto granché. Aveva in mente anche un numero preciso, il trentaquattro. Solo pochi giorni prima era entrato nell’atrio della scuola dove avevano appena affisso i tabulati degli esiti delle tre prove scritte, sommando i voti in quindicesimi in un’unica votazione che doveva costituire la base di partenza per il punteggio agli orali. Nella casella accanto a quella del suo nome aveva letto trentaquattro, e all’inizio aveva pensato a un banale errore, ma poi, anche per un ingegno ormai umiliato e rotto come il suo, fare il calcolo di verifica era risultato facile, e la prova di italiano (undici), la prova di matematica (undici) e la temutissima terza prova (dodici), davano quel numero insipido e banale, una punizione ben più dolorosa di un fallimento eclatante come una bocciatura. Doveva avere un qualcosa di diverso nella sua voce rispetto al solito, quando era tornato a casa, aveva incrociato sua madre che gli aveva chiesto “com’è andata” e lui le aveva detto con tutta la delusione che aveva in corpo “trentaquattro mamma, undici undici dodici.” Aveva passato tutta la sua vita scolastica ad avere paura del momento in cui comunicava alla madre risultati deludenti o sotto le aspettative.
Sua madre con la scuola non aveva mai mollato un secondo, mai un voto, mai un compito. Aveva un’etica del rendimento scolastico per lui indecifrabile, mutuata dall’essere una professoressa lei stessa, in una famiglia di professori, e la sua scala della delusione non corrispondeva con la scala in decimi dei voti. Lo aveva consolato e carezzato per un quattro, ma lo aveva vituperato e punito per dei sei e mezzo, e lui non riusciva a far combaciare il giudizio che otteneva dai professori con quello che lo aspettava a casa, subito dopo pranzo, al rientro da una consegna di un compito o da un’interrogazione di cui preferiva sempre riportare immediatamente il sigillo. Glieli aveva sempre detti tutti, non gliene aveva mai nascosto mezzo; del resto a scuola andava bene, studiava, si impegnava, era brillante per ammissione stessa dei professori e anche lui aveva finito per crederci, e per avvertire un osservabile distacco fra lui e la media della sua classe. Grossomodo portava a casa voti alti, allora si sedeva, abbassava la guardia fino a prendere un voto un po’ del cazzo. Era lì che sua madre lo riportava a terra, assestandogli dei colpi precisi con domande dalle quali non era facile scappare. Se provava a innaffiare la miccia con una risposta vaga, lì scopriva che sua madre sapeva molto bene dove portare il discorso e come, e nella lotta eterna che avevano condotto non ne era mai una volta uscito vincitore. Ogni volta che aveva barato lei aveva finito per smascherarlo. Ma quando tornò a casa quel giorno afoso, e le disse di quel numero, quel trentaquattro, lei lo guardò con una compassione e un senso di ingiustizia che, come d’incanto, spense un incendio che bruciava da sei mesi tra di loro, da una mattina di quell’inverno.
L’autobus aveva iniziato a impiegare il doppio del tempo a raggiungere la fermata del suo liceo perché erano iniziati degli importanti lavori sulla principale che avevano dimezzato le corsie, e se già la situazione del traffico era congestionata, questa circostanza l’aveva reso insostenibile. In più, la fatica che faceva a svegliarsi presto cresceva a vista d’occhio. Non era mai stato un mattiniero, ma uscire da sotto le coperte, in una stanza ancora sigillata, e muoversi in una casa semibuia per mangiare qualcosa che non aveva voglia di mangiare, infilarsi due vestiti, i soliti due, senza prestare troppa attenzione a lavarsi e uscire nel freddo per andare a prendere l’autobus e tornare in quella scuola era un destino sempre meno accettabile, e stava iniziando a metterne in discussione criticamente l’ineluttabilità. Devo davvero vivere così, pensava, è questo il senso della mia esistenza? Più ci pensava, più gli sembrava sfuggirgli il fine ultimo del comparire al mondo come ammasso di cellule, neuroni e pus per reiterare una routine logora che non divertiva nessuno, non dico lui, ma nemmeno i suoi aguzzini. Perciò quelle volte che da in fondo alla via vedeva l’autobus attraversare la curva e sostare alla fermata, una sentenza scritta sul fatto che non sarebbe mai riuscito a prenderlo, aveva persino smesso di correre e di darsi quella possibilità di salire in corsa sull’ultima chance di arrivare in orario: si girava, tornava a casa, provava a intercettare sua madre non ancora partita e le chiedeva uno strappo in auto fino a scuola.
Così, bloccati nel traffico delle otto del mattino, lei chiedeva a lui che cosa lo aspettasse oggi in classe, se lui avesse studiato, se si aspettasse un’interrogazione a sorpresa, come stessero le medie voto. Sapeva già tutto d’altra parte, era una che si teneva informata. Era la professoressa di qualcun altro. Lui ne era ben consapevole, e cosa poteva mai rispondere? “No, non mi andava di studiare”? “No non sono granché preparato ma tanto mi ha interrogato due settimane fa”? “No mamma, ad essere sincero questa scuola e questo regime dello stare sull’attenti mi ha proprio rotto i coglioni e aspetto solo di uscire fuori di qui”? Non avrebbe osato. Fino a una mattina fredda dell’ultimo anno, in una discussione accesa sull’opportunità o meno di mantenere sempre la soglia al massimo, l’impegno al livello d’eccellenza, i risultati che garantissero il più ampio margine di manovra, lui si era arrischiato, ancora mezzo addormentato e con l’alito da caffè, a dire cosa ne pensava davvero, e aveva quasi urlato “Fosse per me punterei soltanto al sei”. Era una resa meravigliosamente costruita. Quel “fosse per me” pareva scelto ad arte per rivelare una verità intollerabile scaricando al contempo tutto il carico della responsabilità dell’impegno nel giardino della madre, lavandosene le mani. Gli aveva appena ammesso che quello che faceva lui non lo faceva certo per sé, perché a credere nella necessità di seguire davvero le lezioni e il percorso didattico era solo lei. E che dire del “punterei”, un verbo attivo, di precisione, che descriveva una mira ragionata, una strategia, la ricerca della mediocrità, il ripudio di tutto ciò che si spingeva oltre. E poi “soltanto al sei”, come una piena consapevolezza che si trattasse del minimo, e l’ammissione di avere tra le proprie carte la potenzialità di fare molto di più. Potere, appunto, ma non volerlo affatto.
E ne era convinto. Qual era il motivo di dannarsi a migliorare il voto, quando la vera differenza era binaria: una prova o la passavi o non la passavi. Non era importante passarla benissimo, bene o per il rotto della cuffia. Non sei morto, quasi morto, mezzo vivo o vivo, è una questione più semplice e basica.
Dopo cinque anni di fatica, settimane intere tranne il sabato passate in casa a studiare, addormentarsi, risvegliarsi scemo e riprendere lo studio, aveva visto i voti calare e l’impegno aumentare, e aveva smarrito il legame tra le due cose, al punto da dubitare che ci fosse. E se consacrare l’esistenza al raggiungimento dei risultati che sua madre -mica lui!- sua madre voleva, aveva portato a peggiorare la media, talvolta persino a dei tonfi epici, dove stava il senso di tutto ciò? Non aveva forse più senso andare sul semplice? Vivi per sopravvivere, si diceva.
Sua madre, senza distaccare gli occhi dalla strada, aveva respinto con violenza, ma soprattutto con delusione e sgomento quel calcolo di suo figlio. Per tutto il tragitto verso la scuola, nel traffico isterico, aveva rinunciato a lottare, e lui non l’aveva mai vista rinunciare a nulla. Guardava la sua immagine riflessa sullo specchietto del passeggero, e iniziava a credere di aver fatto una crepa lì dove non credeva di poter mai rompere niente. Non fece altro, nei mesi successivi, che pensare alla smorfia di disgusto che aveva fatto sua madre quando aveva appreso di avere un figlio che, se fosse dipeso da lui, si sarebbe accontentato di puntare al sei, -uno di quegli ignavi miracolati le era capitato, proprio a lei- che cominciò davvero a contare i giorni che mancavano al suo orale, il giorno in cui in un modo o nell’altro quella prigione si sarebbe aperta, e lui non avrebbe mai più dovuto alzarsi dal letto per onorare un appuntamento che cominciava a pesare più della vita stessa. Sarebbe bastato non allargare il buco fatto nel cuore e nell’orgoglio di sua madre, dissimulare, fingere pentimento, negare, gli serviva una tregua per il tempo necessario a fare le valigie dal mondo della scuola coi suoi ridicoli obblighi quotidiani, e consegnarsi finalmente a una vita più adulta, decisa da lui.

Si era offerto volontario per l’interrogazione di Astronomia, pochi mesi prima della fine. L’aveva iniziata quell’anno, dopo i due di Biologia e quello di Chimica, ma credeva di conoscere la materia da sempre, perché da bambino aveva divorato e persino scarabocchiato un libro sull’universo che spiegava tutto sul sistema solare e i pianeti. Così aveva imparato che Giove era il pianeta più grande, ma trovava piuttosto deludente che fosse fatto solo di gas, il che lo rendeva inconsistente ai suoi occhi. Il più bello, banale a dirsi ma lui l’aveva sempre subito il fascino del banale, era Saturno coi suoi anelli, come delle piste da corsa per ammirarlo tutto intorno. Sapeva, e ci pensava spesso con orrore, che l’atmosfera su Venere era irrespirabile, avrebbe ammazzato un essere umano in modo brutale. Fantasticava sulla durata di giorni ed anni sugli altri pianeti, diversi in modo così drammatico da quelli della terra.
Offrirsi volontario per l’interrogazione di astronomia quindi gli pareva in tutti i sensi conveniente; era una legge non scritta che se lo facevi in una materia poi nessuno avrebbe potuto aspettarsi che nello stesso periodo ti sacrificassi anche in un’altra, e anche se molti pusillanimi della sua classe non avevano mai rispettato questa regola e avevano tentato in silenzio di non offrirsi mai volontari, Marco pensava di giocare in casa con l’astronomia, tanto più che la cattedra era ancora, per il quarto anno di fila, della professoressa Forin. La Forin, con l’accento marcato sulla i, era una donna sghemba, magra e legnosa; ormai anziana, non era certo attraente e soprattutto pareva mettercela tutta per non esserlo neppure per sbaglio. Vestiva spesso di un grigio color pelo di topo che faceva a pugni con il biondo cenere dei suoi capelli, tagliati all’altezza del collo e talmente rovinati da sembrare incollati tra loro come un pezzo unico. Una miopia spietata la costringeva a indossare lenti spesse incorniciate da una montatura passata di moda da prima che le classi a cui insegnava fossero anche solo un progetto dei genitori che le avevano generate, ma nonostante questo accanirsi su tutti i fronti contro ogni gesto interpretabile come una cura di sé stessa, la professoressa Forin era tutto il contrario di certe megere complessate chiuse in una smorfia burbera con l’obiettivo di far soffrire il più possibile chi avesse avuto la sventura di incrociarle sul percorso. Era anzi una donna ironica, amava creare un clima un po’ da spogliatoio in classe, sapeva tenere in pugno ragazzi che di una col suo aspetto fisico e con una personalità un po’ più debole si sarebbero fatti un sol boccone, facendola fuggire in lacrime prima della fine del quadrimestre. Una donna sempre sorridente, e il cui sorriso metteva in evidenza una dentatura sproporzionata e dissestata, rendendola ancora più ripugnante. Eppure la Forin non l’aveva mai discussa nessuno, e al di là delle sue indubbie doti di carisma e autorevolezza, c’entrava anche l’asso che si era giocata subito in prima superiore: la gita di quattro giorni, quattro cazzo di giorni a Napoli in prima.
Per una prima superiore, la gita di quattro giorni a Napoli era come regalare una Ferrari a un neopatentato, e va da sé che a chi ti regala quella Ferrari devi rispetto e ammirazione a fondo perduto. Quella persona ti avrà in pugno per sempre. A quella persona, per proprietà transitiva, Marco doveva anche la prima birra della sua vita, quel sorso putrido e amarognolo, che appena fatto lo convinse di sentirti “diverso, sì, una bella botta”. E in un’accelerata degna della più reazionaria propaganda elettorale di destra contro gli stupefacenti, Marco non fece passare neppure ventiquattrore dal primo sorso di birra al primo tiro di canna, che diventò il secondo e il terzo, e fu sufficiente a tornare in sè mentre andava un disco dei Prodigy, sdraiato sul letto in una stanza d’albergo vuota, che poi riconobbe come non sua, dove i suoi compagni di classe l’avevano lasciato perché non rispondeva. L’essere stato abbandonato in una stanza per tre tiri d’erba fece male, ben peggio del primo tiro, già all’istante, non solo gli anni dopo a ripensarci a mente fredda. Suonava come la conferma di non contare un cazzo, dopo un filotto di indizi che non aveva voluto trasformare in prove. In pullman non aveva trovato posto in uno della fila da 5 dietro, che dominava il corridoio. Quando avevano fatto le camere, aveva scoperto tardi che la quadrupla e la tripla con le persone con cui voleva stare si erano già riempite tra di loro, e lui era finito in un’altra tripla con due persone con cui sì, ci parlava, ma non erano quelli fighi, quelli a cui era chiaro che sarebbero state date in mano le chiavi della gita. Così al quinto mese del suo primo anno di liceo aveva scoperto di essere stato retrocesso a sfigato; dopo un’onorata carriera come il più popolare delle elementari e il più strambo delle medie, alle superiori era solo uno scarto che non ce la faceva né a finire nella quadrupla dei popolari, né nella tripla degli strambi, e doveva essere perché aveva iniziato a desiderare di indossare vestiti che con lui non c’entravano nulla, a volere tagli di capelli sempre più corti, sempre più ingellati, con un delta sempre più ampio tra l’effetto che desiderava e come poi gli stavano in realtà, ma forse i suoi compagni di classe che avevano già capito come fare la voce grossa nel branco avevano visto in lui una personalità sbiadita, sottomessa, e la verità sembrava essere che nessuno lo voleva davvero intorno, e quindi la canna gliel’avevano passata, ma quando lui si era rivelato incapace di gestirla, l’avevano mollato al suo destino senza tanto badarci. Se ne ricordò spesso poi, nel corso del quinquennio, quando diventava un quaderno da copiare, un suggerimento da lanciare durante un compito, un capretto sacrificale da mandare alla lavagna per salvarsi da un’interrogazione. Tutte le volte, cedette. Ma lo fece senza mai la speranza che quei gesti magnanimi lo aiutassero a conquistare un po’ di rispetto, di status. Sapeva di essere poco più di carta igienica per i compagni, buona a trovarsi lì a fianco quando c’era un culo da pulirsi, inutile se rinchiusa in uno scaffale che costringeva ad alzarsi dal cesso, sensata solo in un momento di esposizione alla natura primordiale della merda e della fase anale, e poi dimenticata in quell’angolo della casa per tutto il resto del tempo, perché, chi vive, al rotolo di carta igienica ci presta attenzione solo con il culo sporco. Così Marco, nel momento del bisogno si srotolava senza dire A, perché una volta svolti i compiti non aveva alcuna rivendicazione sull’ingegno che ci aveva messo, e non riusciva a sentirsi proprietario dei suoi risultati. Si lasciava copiare e saccheggiare, non gli importava niente da chi, desiderava solo che quei numeri a penna rossa che governavano la sua vita tramontassero presto. Faceva già abbastanza fatica a badare al roseto di studio che aveva fatto crescere attorno alle sue giornate per curarsi anche di dove andassero a finire i suoi sforzi. L’unica cosa che voleva era andarsene da quella scuola il prima possibile, e avrebbe tanto voluto potersela prendere con la persona che l’aveva obbligato a iscrivercisi, ma quella persona non esisteva. L’aveva deciso lui, e una sera, in un hotel di Napoli, aveva capito di averci pensato troppo poco.
Ci vollero ancora anni però perché si scoprisse anche che non riusciva a far andare il suo cervello come suggeriva l’aggettivo associato al liceo che si era scelto, “scientifico”. Uscito da quell’interrogazione di astronomia in cui si era offerto volontario, era rimasto alla fermata del bus ad aspettare che ne passassero tre o quattro, perché da quel confronto ne era riemerso preso a ceffoni, del tutto in contropiede, aggredito alle spalle. Dopo un avvio circospetto, la Forin aveva mosso il cavallo:
-Quali sono le conseguenze dell’inclinazione dell’asse terrestre?
Eccola lì, la domanda che aspettava. Marco si fregò le mani col pensiero, come fa chi sa di avere messo in scacco il re. Impostò la voce, provò a costruire sintatticamente la frase come aveva letto fare nei libri di divulgazione, voleva dare uno spettacolo autorevole, e per questo grottesco.

-Prima di tutto, il fatto che l’asse terrestre sia inclinato causa le stagioni. L’angolo con cui i raggi solari colpiscono la Terra infatti muta nel corso della rivoluzione del pianeta attorno al sole, causando dei periodi più caldi e più freddi, e delle giornate più lunghe e più brevi.

Lei lo guardò impassibile, alzò le sopracciglia e scosse leggermente la testa, come per dire Vai avanti, su.

-Per esempio solstizi ed equinozi- continuò, — non esisterebbero se l’asse terrestre fosse perfettamente dritto-

-Perpendicolare…- lo corresse lei.

-Perpendicolare, sì, e quindi, appunto, l’angolazione con cui il sole colpisce la superficie terrestre causa le stagioni.

La Forin non si mosse. Stava come aspettando qualcosa, ma sul suo volto non c’era delusione o noia. L’aria cominciava ad accendersi, come se quell’interrogazione stesse prendendo una via più eccitante del previsto. Marco continuò.

-Mentre l’equinozio è il momento in cui giorno e notte si equivalgono, il solstizio d’estate e d’inverno sono rispettivamente i momenti in cui la terra è al perielio o all’afelio. -No- lo interruppe la Forin. La prospettiva di divertirsi aveva appena preso un aspetto solido. Le scappò un sorriso.

-Sì, volevo dire, è il contrario, rispettivamente afelio e perielio.

-No-ooo!- lei scosse la testa e fece schioccare la lingua.

Poi ci fu silenzio.

Se non era uno come poteva non essere l’altro? Marco si bloccò.

Rimase in silenzio in attesa di un assist. Non arrivò. La professoressa lo guardava sorniona, come un selvaggio osserva un predatore cadere nella sua trappola di foglie.

-Cosa c’entrano afelio e perielio?- chiese a Marco, alla fine. — Le stagioni non c’entrano nulla con l’orbita ellittica della terra.

Marco annaspò. -Mi sono confuso, mi scusi-.

-Certo che ti sei confuso- scoccò lei, sempre più affamata, -tanto che l’afelio capita in piena estate e il perielio in pieno inverno, ma non è questo a determinare le temperature.

Forin pronunciò quella frase come se non l’avesse mai detta, e questo a Marco suonò come una prova del fatto che non era tenuto ad avere chiaro quel concetto. Peccato che lo stesse facendo sulla sua pelle, e ormai si era inceppato. Guardò il cielo fuori dalla finestra, come a dirgli che era colpa sua e delle sue stupide leggi poco chiare e mal spiegate se la prof di scienze lo stava inculando come un deficiente qualsiasi. Deficiente che era sicuro di non essere.

Marco aprì così un altro fronte: -Poi c’è la precessione degli equinozi-. Fu la sua mossa del cavallo. Fu una mossa molto stupida, ma gli sembrò la cosa migliore da fare, solo per testimoniare davanti alla Forin e alla classe di conoscere e saper usare la parola “precessione”. Ma si muoveva ormai incerto, ferito. Il castello sintattico che aveva costruito era crollato sciolto di fronte al viso contrito della professoressa che lo stava sfidando.

-La precessione degli equinozi è un effetto dei moti della terra, per cui la linea degli equinozi si anticipa di anno in anno.- La sua frase non aveva senso, e il primo a saperlo pareva proprio lui, perché la interruppe aspettando una validazione.

-In che senso?- disse lei. Ecco la validazione.

-Nel senso che la terra ruotando attorno al proprio asse inclinato ruota anche nella sua orbita, e questo- si interruppe, perché la professoressa Forin si voltò verso la finestra di scatto, irritata.

-Lascia stare la precessione. La precessione non è una conseguenza dell’inclinazione dell’asse terrestre.- Così anche il piano di sfoderare il termine difficile gli era tornato in faccia come un frammento di asteroide.

Voleva parlare dello schiacciamento del pianeta sui poli, usare la parola “ellissoide”, ma non era più sicuro di come agganciare il discorso. Nessuno stava più guidando la conversazione. La Forin era lì che lo guardava, e ne aspettava la resa.

Andò avanti, con uno scambio di battute che Marco dimenticò, ma si ricordò per sempre che la Forin non si accontentò di aver trovato un lato scoperto di una persona, ma prese quell’interrogazione disastrosa, tanto più sorprendente quanto più per il fatto che era stata programmata e autoinflitta, come una bandiera di come l’astronomia, il cielo, il cosmo, nascondessero insidie e misteri, illogicità e incoerenze, contraddizioni e falsi miti da sfatare di cui lei era depositaria. A Marco questo pareva l’esatto opposto del concetto di scientifico, e fu lì, a pochi mesi dalla maturità che il suo sospetto di aver sbagliato tutto prese una consistenza solida, e molto più vicina di una stella.

L’aula magna del liceo, dov’era schierata la commissione, era studiata dal sadico architetto che l’aveva progettata per bloccare la luce proveniente dalle finestre tutta negli ultimi metri prima del soffitto, lasciando buia e umida la stanza dal pavimento, e creando una coltre di nebbiosa luce diffusa nella parte alta. Da lì era difficile rendersi conto che fosse già luglio, un mese che in quelle stanze Marco non aveva mai visto. Non vietò a nessuno di assistere all’orale, ma nemmeno chiese a qualcuno di esserci. Quello che accadeva dietro di lui non aveva più importanza. Era l’ultimo giorno di sempre dentro quel posto del cazzo, ed era pronto a portare la recita fino in fondo, fino all’ultima domanda, l’ultimo convenevole, l’ultimo sorriso finto. La professoressa Tasca, che aveva tenuto la cattedra di Italiano stava seduta a fianco al Presidente di commissione. Per diverso tempo ne aveva ammirato l’ingegno raffinato, e i complessi circuiti con i quali era solita introdurre gli argomenti che spiegava; mentre tutti i professori affrontavano un tema dopo l’altro come una lista di capitoli, lei riusciva a tenere una narrazione organica con i cliffhanger.
Senonché, sul più bello, era impazzita.
Un esaurimento nervoso arginato con dei pianti in sala professori che non avevamo mai visto, ma le cui notizie ci arrivavano per tradizione orale, e che in classe diventava una rabbia implacabile, una vendetta sanguinosa. Nello spiegare i trovatori provenzali, l’amore, la donna schermo, infarciva le sue parafrasi di doppi sensi sessuali che ci lasciavano imbarazzati, mentre i lineamenti le si contraevano per la collera, e le cornee si allagavano di lacrime. Ne era uscita piano piano, e il giorno dell’orale di Marco era ormai una donna sola, una professoressa decaduta, e una persona serena, che voleva soltanto andare in vacanza. Lui riconosceva di doverle molto, ma ne aveva ancora paura, perché era stata il suo primo contatto con la follia.
Lì a fianco il professor Cutro sedeva poco presente a sé stesso, proprio come aveva condotto tutta la carriera, raccontando la sua lezione in programma, senza mai deviare e farsi distrarre dagli alunni, come se non ci fossero. Aveva tutti i difetti che poteva avere un oratore; balbuzie, voce altalenante e poco udibile nei tratti finali della frase, erre moscia, bave, tono monocorde. Accettava di essere una comparsa nelle vite dei suoi studenti e li ricambiava con la stessa moneta. Proprio per questo, Marco a malapena si accorse della sua presenza in commissione, e il professor Cutro aveva l’aria di non voler fare nulla per farsi notare. A specchio, il professor Di Santo, il quinto professore di matematica e fisica che aveva avuto in cinque anni, osservava la luce negli angoli della sala come se fosse lì per sbaglio, in attesa del rilascio di un certificato per qualcun altro, ed in effetti era proprio ciò che stava succedendo. Di Santo era anche quello che si era portato a casa lo scalpo migliore di Marco, un roboante 3 in matematica, a febbraio, neanche quattro mesi dagli esami. Era un compito sugli integrali. Degli integrali Marco non aveva mai capito niente, perché a un certo punto la matematica si era avvitata su sé stessa prendendo un andamento asintotico nei confronti delle sue capacità. Di Santo era bravo, un buon uomo, e Marco lo sapeva e non ne aveva mai dubitato neppure per un minuto. La sua capacità di prendere una quinta disastrosa, che ogni anno aveva dovuto ricominciare daccapo a districarsi con l’algebra, e portarla fino alla maturità senza mai perdere le staffe aveva un che di sciamanico, nonostante Di Santo avesse un carisma di provincia. Era un meteorologo amatore. Una volta nel mezzo di una spiegazione, si era bloccato, e fissando fuori dalle finestre mentre un sole potente faceva a pezzi delle nuvole bianche inoffensive, aveva detto “Mannaggia, c’è il sole”. Davanti a una classe perplessa, si era spiegato. “Non mi piace toppare le previsioni”.
Quel 3 in matematica di Di Santo era un acquazzone dopo ore di tuoni, e con la stessa ineluttabilità Marco l’aveva accolto come un ciclo necessario della natura. Non ce l’aveva con lui. La verità era che ormai aveva mollato, e Di Santo era arrivato troppo tardi per rimetterlo in piedi. Lo guardava e pensava che avrebbe voluto avercelo per qualche anno in più, e in quel momento di azzeramento dell’emozione, il rimpianto per Di Santo fu l’unica finestra di umanità che si concesse.
Alla sua sinistra, solide e presenti, eccole. La professoressa Forin, col sorriso della domenica, e lì subito accanto sedeva la professoressa Toso, la donna che più al mondo era riuscita a far sentire Marco un pagliaccio. La professoressa Toso, con la cattedra di Inglese, era una signora minuta ma dalle proporzioni canoniche, ed era giusto all’indomani dall’essere stata una bellissima donna. Vestiva quasi sempre di nero, come se il suo consulente di stile non le avesse dato alternative, perché sì, veniva da quel ceto in cui potevi permetterti un consulente di stile. La Mercedes decappottabile parcheggiata proprio sotto le finestre della scuola, che con prepotenza si prendeva il titolo di auto più ammirata del liceo, soprattutto da una buona fetta di studenti che non desiderava altro che una patente per andarsene il più lontano possibile dalle famiglie, sembrava confidare a chi la guardasse che era solo per misericordia e magnanimo che una del rango della Toso si sprecava a lavorare in quella scuola. Nonostante uno stile sobrio e minimalista, si concedeva appariscenti brillanti alle dita, borse più costose che eleganti, e un intervento chirurgico ormai datato le segnava i lineamenti rendendo le sue espressioni di disgusto ancora più potenti. Faceva lezione in Inglese con una pronuncia artificiosa ed esatta, forzata dal dover scandire bene le parole. Era una maniaca del lessico. Ad ogni ora di lezione faceva segnare sul quaderno almeno sei o sette vocaboli nuovi che erano oggetto di interrogazione per tutto il resto del quinquennio, cosicché Marco aveva imparato a dire “carne di rognone” in inglese, senza aver mai mangiato carne di rognone, senza saperla riconoscere, senza neppure aver presente cosa fosse il rognone. Però l’aveva imparata, perché sin da subito Marco e la professoressa Toso avevano ingaggiato un duello. Marco amava l’inglese, era arrivato alle superiori intinto nella cultura anglosassone, e con una gran voglia di dimostrarlo. Ma alla professoressa Toso i facili entusiasmi non erano mai piaciuti, li trovava volgari; chi sapeva troppo aveva bisogno di sentirsi dire che in realtà non sapeva nulla, secondo lei. Il suo metodo didattico era a base d’acqua, secchiate d’acqua e ghiaccio secco per spegnere entusiasmi, riportare sulla terra chi credeva che l’inglese fosse una questione semplice, una macchia che bastava lasciar espandere sul tavolo, senza troppo controllo. Così, alla soglia della fine, Marco stava per sedersi a quel tavolo ormai demolito nella sua sicurezza della conoscenza della lingua, e la professoressa Toso sembrava saperlo. Era raggiante. Sorrideva. Pensandoci bene forse non l’aveva mai vista così felice.
Quando si sedette, e il Presidente di commissione pronunciò in modo legnoso il suo cognome, Marco si guardò dentro e si vide un uomo disperato, nel senso etimologico del termine: aveva perduto ogni speranza, ogni pulsione positiva, non gli interessava in nessun modo ciò che gli stava accadendo, aveva perduto ogni amore per ciò che un tempo gli era interessato sapere e dimostrare. L’unica cosa che contava era che fosse nell’ultima stanza prima che le porte di quel luogo gli si chiudessero dietro per l’ultima volta, e aveva con sé una tesina in cui, ed era ironico a pensarci, aveva voluto unire la materia della sua principale avversaria, la professoressa Toso, con la materia della sua alleata principale, la professoressa Forin. In quel momento, però, questo sottile gioco di attrazione gravitazionale tra i due corpi celesti che lo avevano costretto in un’orbita sempre uguale a sé stessa, contava meno di zero. E con questa consapevolezza intrappolata nell’eterno, iniziò a parlare per l’ultima volta ai suoi professori.

La prima volta che l’aveva lasciato, Vittoria gli aveva detto, aggrottando le sopracciglia, “sei patetico.” Marco ricordava bene di aver fatto subito prima qualcosa di patetico, ma doveva aver pensato che in quel momento il gioco valesse la candela, e quindi aveva fatto un tentativo. E comunque il Marco che ricordava e il Marco che viveva quel momento non avevano lo stesso livello di consapevolezza del modo in cui ci si comporta in una relazione, perciò il patetismo era stato ravvisato dal primo, ma non dal secondo. Quella frase di Vittoria aveva per la prima volta introdotto un glitch nel suo sistema empirico, per il quale a ogni sua azione doveva corrispondere il risultato sperato. Si era molto sorpreso dal fatto che una lagna così ben architettata per convincerla a tornare da lui gli fosse valso un “sei patetico” invece che una nuova storia con lei in cui finalmente poter sconfiggere i loro problemi. E anche la seconda volta che si erano lasciati, sia la teoria del male minore che la teoria della scadenza si erano rivelate prive di fondamento, perché la realtà, avrebbe saputo dopo, aderiva a una casistica che Marco non aveva ridotto a teoria perché esisteva già ampiamente documentata al mondo, ed era il “voglio stare con un altro, per la precisione un nostro amico in comune”.
Unendo i puntini, quel 3 in matematica, l’incapacità di comprendere a cosa servissero i vettori in fisica, la totale inadeguatezza della sua struttura fisica alla comprensione degli integrali e delle derivate, e la comprensione ancora nebulosa delle conseguenze dell’inclinazione dell’asse terrestre, parvero allinearsi alla perfezione con problemi meno scientifici a un primo sguardo, ma che avevano lo stesso effetto di minare il suo sistema: percepirsi come un ragazzo popolare che veniva lasciato solo a raccontarsela in cambio del suo quaderno coi compiti fatti, attuare con la sua ragazza un registro tragico sublime che veniva scambiato per patetico. Iniziavano a essere troppi i colpi sicuri falliti con uno schianto.

Le stelle, poco prima di morire, cominciano a gonfiarsi, diventano obese. Le chiamano “gigante rossa”, poi finiscono il combustibile che stanno bruciando e a un certo punto esplodono, proprio come un corpo che non sa più bilanciarsi, troppo dilatato, prendono il nome di “supernova”, si circondano di gas che formano una specie di coltre di luce che si chiama “nebulosa”; la stella diventa minuscola, la chiamano “nana bianca”, fino a diventare un corpo nero inerte. Alcune invece collassano su sé stesse e si mangiano tutta la materia e la luce che entra nelle loro vicinanze, li chiamano “buchi neri”. È buffo in quanti stadi con nomi bellissimi abbiano diviso la morte. Il Sole pare che non esploderà, perché alcune stelle non lo fanno. Diventerà una gigante rossa, andrà a mangiarsi prima Mercurio, poi Venere. Sulla Terra ci sono pareri discordanti, c’è chi dice che verrà inglobata, chi invece che si salverà, ma è un concetto di salvezza naturale, quella natura che non si cura dell’uomo se non come un tassello della sua complessità, per quanto sia negli ultimi anni di certo il più fastidioso. Le radiazioni del Sole da gigante rossa ci uccideranno comunque tutti se non l’avremo già fatto da soli, il che in cinque miliardi di anni è piuttosto probabile. Dopo un po’, il sole si spoglierà dei suoi strati esterni, e diventerà una nana bianca. A quel punto nel sistema solare non ci sarà più luce sufficiente per nessuna delle forme di vita che conosciamo.
È quasi impossibile da accettare, ma tutto questo avviene in tempi tali e a distanze tali che davvero nessun uomo, e forse nessuna specie, può osservarlo nella sua interezza, in tutto il suo processo. Nelle sere quelle nitide, in cui puoi vedere un sovraffollamento di luci che identifichiamo come la Via Lattea, con buona pace del disgusto che questo nome può dare agli intolleranti, è disarmante rendersi conto che quel cielo è una fotografia di migliaia e migliaia di anni fa, che ci raggiunge nel presente. Marco guardava le stelle con la sensazione di essere colpito da qualcosa che era partito da qualche millennio e non si dava pace per questa cosa, avrebbe voluto che tutta l’astronomia a scuola fosse dedicata alla risoluzione di quel mistero. Forse questa stella che sto guardando è già morta, pensava, diecimila anni fa, o dieci milioni, o dieci miliardi di anni fa, e qui ancora non lo sappiamo, ancora quella luce non è arrivata qui. Ogni tanto, di notte, mentre sistemava gli appunti prima delle prove di maturità, e ristampava la sua tesina su Keplero e l’analisi di In Memoriam di Alfred Tennyson, usciva a fumare una sigaretta nel terrazzo e si arrabbiava con Vittoria che non l’aveva voluto aspettare. Ripensava ai primi giorni di giugno, erano anche andati al mare il 2 che era festa, avevano passato un pomeriggio grottesco, a scambiarsi poche parole, a limonare in modo distratto, e lì lui aveva capito che bisognava stringere un po’ la presa, tenersi forte, aggrapparsi alle maniglie e far passare la tempesta che arrivava. Ce l’avrebbero fatta, bastava far passare gli esami e ce l’avrebbero fatta, bastava tenersi forte. Non c’era nulla che il tempo non avrebbe potuto risolvere soltanto aspettandolo. Nelle stagioni calde, sentiva sempre un rumore di fondo venire dal terrazzo, come quello di un treno che passava non troppo distante da lì. Sapeva dov’era la ferrovia, e gli pareva impossibile che il suono, pur nella quiete delle notti estive, potesse farsi strada tra i palazzi e arrivare fin lì. Sapeva anche che il cosmo intero era attraversato dalla radiazione di fondo, una specie di brusio inudibile all’occhio umano che gli astronomi ritengono sia una specie di residuo del fischio lasciato dal Big Bang, la grande esplosione della massa che ha generato in pochi istanti l’universo come lo conosciamo, l’universo che ancora si sta dilatando. La radiazione cosmica di fondo, dicono, è diffusa in modo uniforme in tutto l’universo, non viene da nessun corpo in particolare, misura circa 3 kelvin, forse meno, e la sua temperatura continua a scendere man mano che l’universo si dilata. La misurano come una temperatura, ma non riesci a non immaginarla come una specie di rumore, un brusio, quei brusii di cui ti accorgi solo quando vengono a mancare all’improvviso, quando spegni una cassa accesa, o muore una persona a cui non pensavi da tanto.
Quel treno in lontananza, per Marco troppo assurdo da spiegare in termini terrestri della sua esperienza, era la radiazione cosmica.

Aveva iniziato a esporre la tesi alla commissione, guardava soprattutto la Forin, per competenza, e per la gita a Napoli. — Fu Keplero a teorizzare una musica nel cosmo. Secondo lui, come riporta nell’Harmonices Mundi, c’è una musica, un’armonia non udibile dei pianeti, che corrisponde ai rapporti geometrici e matematici presenti tra i corpi. La musica è una riproduzione fisica sulla terra di rapporti geometrici, le note delle corde si basano su precisi rapporti di lunghezza. Keplero attribuiva a questo il fatto che all’uomo piaccia la musica. Secondo lui quindi esiste una motivazione cosmologica, e perciò scientifica, al modo in cui la musica ci provoca delle emozioni, e quella motivazione era proprio la risonanza tra i corpi dell’universo, i suoi rapporti geometrici, matematici, e gli intervalli generati dal loro moto. -

Parlava in modo atono, il suo discorso non lasciava trasparire nessuna emozione, e d’altronde gli pareva l’unico modo di viaggiare tra Keplero, Schopenhauer e Tennyson senza darsi del ridicolo da solo. La professoressa Toso continuava a sorridere con quello squarcio allegro, non capiva se fosse perché lo stava finalmente seguendo o perché era a pochi giorni dalle ferie. — Cosa c’è di Romantico quindi in Tennyson? — gli chiese. — C’è il fatto che il poeta sia in balia di una natura che non si cura di lui, quindi il pensiero lo terrorizza. Nonostante questa consapevolezza lui continua a dar voce al dolore, e a esprimerlo musicalmente tramite la poesia. Però si accorge che quello che per lui è importante per la natura è futile.
Pronunciò questa frase come se non gliene importasse nulla. Dovette fare un effetto particolare, per la coerenza tra forma e contenuto.
Concluse il racconto della sua tesina senza momenti di difficoltà, senza incepparsi. Il filo logico, piuttosto sottile per la verità, che andava tra Keplero, Schopenhauer, Tennyson e la musica estrema che amava ascoltare, quella che ascoltava quando era in uno stato d’animo tragico per amplificarlo, pareva essere passato di mano in mano tra i membri della commissione, e nessuno pareva esservisi legato granché, ma almeno era passato.

Adesso aspettava il duello finale, la domanda della professoressa Toso. Con la professoressa Forin invece, aveva già preparato tutto. Aveva enunciato la prima legge di Keplero: “l’orbita descritta da un pianeta è un’ellisse, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi”. Era l’assist perfetto per tornare di nuovo sul moto della Terra, sull’inclinazione dell’asse terrestre, spiegare giorno, notte, estate, inverno, anni, giorni, buio, luce, caldo e freddo, senza perdersi, senza sbagliare, chiudere il cerchio. Una rivincita talmente telefonata che cominciava già a sentirne il sapore. Con la professoressa Toso invece aveva rinunciato a capire, a prevedere, ad applicare teorie e modelli statistici, perché lei era sempre riuscita a trovare un fallo, un difetto, un buco nella sua preparazione e nelle sue difese, e in quel momento lì, negli ultimi istanti di un esame ormai compromesso da quel trentaquattro con cui si presentava, e Vittoria che ormai era in vacanza da venti giorni e che si stava forse domandando se doveva dirgli o no che sì, le cose non funzionavano più, però sai già funzionano molto bene con un altro, e lo conosci pure, Marco rilassò tutti i suoi muscoli e aspettò che la professoressa Toso affondasse il colpo. Lei cominciò a parlare.

- Credo che sia una tesina molto bella, hai parlato di un poeta che abbiamo trattato poco, hai sempre mostrato di amare questa lingua. Ti faccio i miei complimenti.

Sorrise. Marco aspettava il colpo. La Toso gli staccò lo sguardo di dosso, e si girò verso i suoi colleghi, come a dire che lei aveva finito. A Marco non parve possibile. Si sentì derubato di un nemico secolare, per il quale all’improvviso non era più neppure un pericolo, solo una cosa da lasciar andare coi complimenti. Un’altra previsione sbagliata. Era fuori di sé.

Fu lì, nel momento più fragile di tutti quei cinque anni, nella circostanza in cui era più indifeso, che la professoressa Forin mostrò la sua natura.

- Parlami un po’ delle comete.

Uscì fuori nell’afa di luglio, era quasi mezzogiorno, il sole era a picco, il grande parcheggio in ghiaia era ancora mezzo pieno. L’ala curva di quella scuola pareva tentare di abbracciarlo con l’incombenza quasi di un gas, ma era sereno, sapeva che era finita; in certi momenti ci metti un po’ a rendertene conto, lui invece ne aveva una completa consapevolezza fin dai primi istanti in cui si era alzato da quella sedia, dopo una scena muta in astronomia al suo colloquio di maturità, in cui non aveva saputo rispondere a una domanda su un argomento mai menzionato in classe, con nessun aggancio con la sua tesina, una carta sfoderata dalla professoressa Forin con l’evidente intenzione di schiacciare un sapere con un altro. Le comete descrivono un’orbita ellittica. Alcune un’orbita parabolica, il che significa che dopo un passaggio possono uscire per sempre dal sistema solare, per non tornare a farsi vedere mai più.

Marco non tornò mai più alla sua scuola, non andò mai a salutare nessuno, tentò di non curarsi di lei come lei non si era curata di lui, e la immaginava come una gigante rossa che si gonfiava, mangiandosi altre persone come lui, arida a tutto tranne che ai numeri, il trentaquattro, il settantotto, il tre o il sette, il sette meno meno.

Hai fatto lo scientifico, gli dicevano, non eri più da classico? Ancora anni dopo quell’ultimo giorno di quei cinque anni, non era riuscito a perdonare nessuno, e se continuava a tentare di ridurre la sua esistenza e la realtà che lo circondava a modelli scientifici o teorici era perché aveva bisogno di prevedere le cose, di trarre da medesime ipotesi le medesime conseguenze, e però aveva capito dalla Forin, dai suoi compagni, da Vittoria che questo era vero solo se rimuoveva sé stesso dall’equazione. Ma non si era mai arreso al fatto che in fondo, la scuola, non potesse essere quella roba lì, quella furia astronomica crudele e impassibile che riduceva tutto a futile.

- Ci pensi mai a quando moriremo? — gli avevano chiesto qualche volta, ed erano entrati in discorsi che fantasticavano sul futuro, e sull’orrore e al contempo il conforto che prima o poi tutto sarebbe finito. Rispondeva sempre — Vorrei almeno arrivare al 2061, perché vorrei vedere la cometa di Halley.

Lo guardavano con sconcerto. — L’ultima volta che è passata era il 1986, e io sono nato l’anno dopo. Vorrei vederla passare, solo questo.-

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Marco Vezzaro

Copywriter & Editor | Volevo fare il calciatore ma è troppo tardi, vorrò fare lo scrittore fino a quando non sarà troppo tardi | http://marcovezzaro.com