Empatia di domenica
Dal tavolo dove sono seduto vedo, dritto di fronte a me, la porta d’ingresso dell’osteria; mi trovo nella sala in fondo, quella con i tavoli, dove si mangia. Ci si arriva percorrendo un lungo corridoio che, dall’entrata, costeggia il bancone del bar, uno spazio che in certi esercizi, a certe ore, è poco più che una cartolina. Si è lì per mangiare, nessuno vi si siede, nessuno sta a servire.
Ci siamo seduti per pranzare da mezz’ora, sono arrivati giusto gli antipasti, parliamo, in una conversazione a tre della quale io sono spettatore, facilitatore, turista. Di fronte al nostro tavolo, rotondo, uno rettangolare ancora vuoto ma riservato si sviluppa sul suo asse più lungo, che si proietta verso l’entrata, dove guardo io, e man mano che il tempo passa mi viene da chiamarla uscita.
Mangio il pane che si dovrebbe conservare per accompagnare le portate, per fare il mio ruolo in una contravvenzione indotta, quando vedo entrare i quattro che lo occuperanno. Sono due uomini e due donne, sembrano tutti tra i 60 e i 70 anni, non sembrano due coppie, ma quattro amici. Prendono posto, le signore a sinistra, i signori a destra.
La prima è una donna appariscente e colorata, nel senso che ama accostare toni accesissimi e complementari nel vestiario, e accompagna tutto con dei capelli rosso fuoco tendente al fucsia e inframezzati da ciuffi tra il biondo e il bianco; è quello stile punk che su una signora della sua età acquista una sfumatura del tutto decorosa, come se sul finire degli anni una vita tornasse a una ribellione a cui viene finalmente dato credito, spazio e anche un gettone di legittimità in più. La signora che la segue, che si sistema nel posto più vicino al mio punto di vista è una sua versione sobria, contenuta. I capelli sono di quel color ottone che racconta la sua lotta tra il resistere del biondo e l’ingrigire; forte dei suoi toni e sguardi sbiaditi, veste in maniera coerente: un golfino beige, dei pantaloni neri. Di fronte a lei, si siede un uomo alto e dalle spalle larghe, che poi deludono nella postura e nel restringersi drastico del giro vita, con dei capelli argentei che cadono a scodella su un viso pallido, asciugato e che sembra tradire perenne sconforto. Un presagio. Veste un maglioncino verde smeraldo e dei lunghi pantaloni beige. Per ultimo, con fatica, si avvicina in una marcia sofferente un uomo di statura più contenuta, corpulento, con i capelli corti e ispidi di cui le sopracciglia folte sembrano un buffo antipasto. Cammina insicuro e prudente, a passi minuscoli, reggendo un bastone con la mano destra, e stringendo un giornale con la sinistra, che svolazza incontrollato amplificando come un urlo di carta la rivelazione del Parkinson. Il gesto con il quale, sistematosi a piedi paralleli, protende il bacino verso la sedia e piega le gambe, per poi lasciarsi andare con un tonfo alla seduta, dura secondi infiniti. A vederli così, tutti e quattro seduti, pronti a iniziare il loro pranzo domenicale, paiono quattro intellettuali di rilievo, in decadenza, ai nastri di un’altra sessione in cui i ricordi e le idee giocano a mischiarsi come ampolle, sfidando la dispersione degli anni.
Ho fame, e lungo quel corridoio che dal mio punto di osservazione, subito oltre il tavolo dei quattro signori, assomiglia a una passerella di spunti pronti a trasformarsi nelle storie di cui quest’osteria campa ogni giorno, i camerieri sfilano con i piatti di chi è arrivato prima di noi; aspetto il mio turno senza concentrarmi troppo sul mio posto vuoto.
Un cameriere gigantesco, con una barba lunga che per uno strano paradosso gli addolcisce i tratti mastodontici, si avvicina al tavolo dei quattro signori, attirato dal gesto del signore magro e smunto, che agita il calice come a chiedere «non sappiamo che vini poter scegliere». Il cameriere, gentile, gli porge un listino dei vini che già si trovava al loro tavolo. L’uomo reagisce con un’espressione di pura vergogna per la propria distrazione. I suoi anni stanno tutti in quel senso di imbarazzo e inadeguatezza. Succede spesso anche a me di perdermi una circostanza in evidenza davanti ai miei occhi. Vorrei ritardare il più possibile il momento in cui inizierò a dare la colpa alla mia età, e a ritirarmi in un arrossire che è desiderio di recuperare ciò che sentiamo ormai compromesso nella nostra attenzione.
Frattanto, mi ritrovo disconnesso dal flusso sul tavolo dei quattro signori per tornare al mio, di tavolo, e non appena mi arriva la mia ordinazione abbasso lo sguardo, e si spengono i riflettori sul corridoio che porta all’uscita. Quando lo rialzo, quando li riaccendo, le signore a sinistra non ci sono più, il signore pallido e smunto a destra mangiucchia qualcosa e osserva lo schermo del telefono, il signore corpulento ha già la sua zuppa, e si porta alla bocca il cucchiaio tremante con una lentezza quasi propria del mondo delle piante.
Nello sguardo sconsolato dell’uomo coi capelli lunghi, uno sguardo che ora assume un senso più circostanziato e quindi più comprensibile, sta tutto il dispiacere per un innocuo pranzo domenicale in osteria, una coccola concessa a un’età di disfuzioni, che è naufragata ancora prima di iniziare, perché i bicchieri sono ancora pieni, e i piatti ancora vuoti. Allungo lo sguardo, e in fondo al corridoio vedo le due signore; la signora sobria in piedi, protesa verso l’altra, la signora trasgressiva, abbandonatasi su una sedia a fianco a un appendiabiti che me ne copre parzialmente la vista; da ciò che capisco, si sta tenendo una borsa di ghiaccio sulla fronte.
Per ben due volte, l’uomo alto e magro che aveva chiesto una carta dei vini che aveva già, si alza e con un incedere cadenzato e leggermente scoliotico va a verificare la situazione. Da lontano, lo vedo allargare le braccia, sconfortato più che preoccupato. Fuori piove a dirotto, di tanto in tanto qualcuno entra trafelato chiudendo l’ombrello e soffiando tra i denti per il sollievo, in un dinamismo che stride con la scena in paralisi di una domenica innocente squarciata che mi sta gonfiando la gola. L’uomo tremante è ancora al proprio posto, ormai solo al tavolo, quando la cameriera arriva con i piatti di tutti. Posa il cucchiaio con cura, e le indica chi ha ordinato cosa, quale piatto va lasciato dove, per non arrendersi alla brutale normalità di un imprevisto.
Esco dal locale, dopo il mio pranzo, cercando di non indugiare mai sulla signora appariscente, ancora distesa sulla sedia a tamponarsi la cosa, qualunque sia stata, che ha trasformato il suo pranzo domenicale con tre amici in una spietata accettazione di quanto avere settant’anni possa bucare come un palloncino anche le bolle di felicità più banali. Due tipi molto diversi di vergogna ci schiacciano, a lei che resta, a me che mi allontano.