A tutti piace correre sotto i getti d’acqua

Marco Vezzaro
9 min readAug 28, 2018

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Potè finalmente sedersi sul divano. Non abbandonarvisi, perché è un divano troppo poco profondo, ti ci puoi sedere per allacciare le scarpe, o farne un ultimo stadio di raccolta delle forze prima di uscire dalla porta.
Aveva cucinato, mangiato, lavato i piatti, sfatto la borsa e messo in lavatrice gli stracci sudati con cui aveva affrontato la partita. Guardò l’orologio, le dieci di sera passate. Camminava a malapena, per un’infiammazione fastidiosa che lo aveva costretto a chiedere il cambio alla fine del primo tempo: aveva seguito il resto della partita da bordo campo, supino, con le braccia e le gambe in diagonale e un blocco di ghiaccio sul pube per lenire il dolore che pulsava. Così, con quella posa tragicomica era finita la sua stagione, la prima dopo tanti anni che aveva avuto cuore di portare fino alla fine, oltre i campi ghiacciati e spelacchiati dell’inverno, gli impegni, gli aperitivi irrinunciabili.

-Perché hai ricominciato?- gli aveva chiesto più volte sua madre, come se parlasse delle sigarette. Non aveva saputo rispondere bene. Per noia? Per rimettersi in discussione? Per nostalgia di qualcosa che gli mancava, per il desiderio di evadere dal contesto in cui aveva incastonato le sue giornate dai vent’anni in poi, quando la scelta sembrava essere tra la musica e tutto il resto, prima di accorgersi che “tutto il resto” non poteva essere semplicemente ignorato, mentre gli anni andavano avanti, e il sonno si accorciava assieme al piacere di dormire e svegliarsi senza altro pensiero che non fosse come condurre quella giornata. Aveva risposto anche lui, forse, come se parlasse delle sigarette. E come le sigarette, il calcio era una perdita di tempo per lei, lo aveva sempre saputo. Ma d’altronde non gliel’aveva mai impedito.

Il suo allenatore di quando era bambino abitava proprio di fronte a lui, un uomo minuto e che nel suo immaginario non era mai stato giovane. Aveva allenato la squadra del paese da quando ne aveva memoria; di lui si raccontava che la sua carriera fosse stata falcidiata dagli infortuni e interrotta anzitempo. Di lì in poi, aveva dedicato tutta la vita ad allenare i ragazzini, per poi vederli lasciare, o andarsene in squadre più forti, più competitive, più ambiziose, speranzosi di non fermarsi al setaccio che divide una carriera amatoriale da quella semi-professionistica.

Da bambino non era diverso dagli altri: anche lui aveva sognato più e più volte di segnare il gol decisivo in una partita sanguinosa con gli spalti traboccanti di gente che di te conosce nome, cognome, data di nascita, piede preferito e tutti i tuoi gol più importanti. È il traguardo di tutti: veder arrivare una palla, raccoglierla e gestirla con una combinazione letale di pensiero fulmineo, istinto innato e fortuna, per mandarla in una coordinata spazio tempo irraggiungibile per il portiere, l’ultimo ostacolo umano e crudele che definisce lo scarto tra un gesto di cui si perderanno le tracce nelle cronache di una partita e una rete che può cambiarti la carriera, la vita.

Aveva avuto dei momenti simili da adolescente, quando era già troppo tardi per credere veramente ai massimi livelli, quando aveva già capito forse che il momento per lavorare duramente e sacrificare “tutto il resto” era stato ieri. Giocava in campi senza spalti, in terreni sotto il livello della giocabilità, perdeva quasi sempre, ma quando vinceva era il più forte del mondo per un minuto, correndo con le braccia aperte ad aeroplano.

L’allenatore, il vecchio minuto che al tempo era un po’ più giovane si limitava a una risata compiaciuta, non si scomponeva di gioia. Lo faceva solo durante gli allenamenti, quando lo schema non riusciva per una stonatura nell’orchestra. Fischiava, fermava tutto e iniziava a blaterare istruzioni incomprensibili: il suo misto di dialetto stretto e balbuzie era stato un rebus indecifrato per tanto tempo, una sfida ad ogni discorso, sicuramente l’esercizio più faticoso a cui si era costretto per giocare a calcio, più delle prove di resistenza, più della preparazione atletica o di cerebrali schemi per rompere le difese avversarie.

Lo aveva cercato e stanato da giovanissimo, e si era invaghito del suo piede sinistro naturale. Erano lusinghe che, ripensandoci, riservava a tutti pur di avere una rosa nutrita di cui disporre nei campionati, e alle lusinghe vi cedeva volentieri; d’altronde, da bambino, tutto sembrava combaciare. Era il più forte a ricreazione, segnava gol a grappoli, era inarrestabile se decideva di dribblare, di tirare, di sfondare di forza le difese. Semplicemente, era arrivato prima degli altri.

Era andato ad abitare lontano dai suoi, lontano dal suo allenatore, ma del resto il suo allenatore non allenava più, ora sì, vecchio per davvero, senza più le forze per infilare la tuta, imboccare il fischietto e seguire con lo sguardo una fila di ragazzini disegnare un rettangolo con andatura tranquilla, poi sempre più sostenuta fino a disperdersi come soldati sconfitti.

Seduto sul divano, sentiva dal bagno la centrifuga della lavatrice accompagnarlo nel silenzio della casa vuota, con quel rumore sempre più acuto, e ripensò a quante volte sarebbe piombato in pensieri troppo dolenti senza una lavatrice che sembrava dire, dall’altra stanza, “sono qui anch’io.”

Si alzò facendo leva sul pube infiammato, spense la luce e uscì, in quella domenica sera di fine maggio per raggiungere la sua ragazza. Nonostante tutto, ce l’aveva un po’ con lei, ma non aveva voglia di dirglielo.

-Hai allenamento stasera?-, una domanda che gli aveva fatto puntuale per tutto l’anno, sempre gli stessi giorni, non era mai riuscita a impararli. Una domanda che non voleva mai dire solo quello che esprimeva, ma che cercava, colpo dopo colpo, di farlo desistere da quell’ennesimo impegno non richiesto che erodeva il suo tempo. -Perché altrimenti potremmo andare qui, fare questo, vedere quello, mangiare quest’altro-, e la risposta, di lunedì e mercoledì era sempre -Sì, ho allenamento-. Finché prese a portarsi direttamente la borsa in ufficio, per andare diretto al campo, e avvertirla con un messaggio -Oggi ho allenamento, torno dopo cena-.

Nel disinteresse di lei per il calcio rivedeva lo scetticismo che era stato di sua madre, e da bambino era troppo innamorato del pallone per soffrirne. In cuor suo, già sapeva che non avrebbe portato fino in fondo quella cosa, che non avrebbe rinunciato a una vita normale per un folle sogno irrealizzabile. Era troppo piccolo per leggere negli ammonimenti di sua madre una mancanza di fiducia cronica, non avrebbe mai pensato di non essere abbastanza tagliato per farcela, di non avere il sostegno necessario a farcela. Non ci pensava e basta, voleva giocare, e l’avrebbe fatto fino a quando il prezzo non sarebbe stato troppo alto, o non si sarebbe stufato. Si stufò.

Aveva accarezzato l’idea di ricominciare per troppi finali di estate, quando passava di fronte al campo che si scorgeva dal ponte, e lo vedeva vuoto, rinato nel suo verde accecante mentre gli innaffiatoi disegnavano gli archi d’acqua, e non l’aveva mai detto a nessuno ma anche in quel presente, a quasi trent’anni, ci si sarebbe gettato sotto per il gusto di bagnarsi e nient’altro.

Gli ultimi giorni di agosto hanno quel sapore amaro da masticare tanto da piccoli, quando la scuola sta per ricominciare, quanto da grandi, quando rimandare la prima piscina, i primi soli, il primo mare, ti porta dritto al momento in cui tutto deve ricominciare, e magari fosse la scuola. In quel campo tirato a lucido per le prime partite della stagione, le più belle, le meno decisive, poteva avere il conforto di qualcosa che ricominciava e che d’estate gli era mancato; d’estate, e in tutte le altre stagioni di quei dieci anni senza calcio.

Più grande, più maturo, il completo disinteresse di lei, con alcune punte di fastidio, gli sembrava più difficile da ingoiare, ma del resto aveva scelto il calcio anche per chiudersi in una dimensione di solitudine, solo sua, senza contatti con la vita che si era costruito. Non aveva particolari rapporti con i compagni di squadra, benché alcuni li conoscesse già; era un tuffo in una realtà che aveva abbandonato senza nemmeno ricordarsi come, e che aveva ritrovato molto cambiata, doveva ricominciare da zero. Aveva trovato un gruppo solido, unito ma permeabile, che l’aveva accolto senza porsi il problema di chi fosse, cosa facesse; ogni tanto riceveva qualche domanda, quel tipo di domanda a cui lui non sapeva come rispondere senza addentrarsi in spiegazioni troppo lunghe, perché aveva paura di annoiare persone appena conosciute. Ma d’altronde a loro non era mai importato troppo chi fosse lui, contava solo la squadra, contava solo giocare ed essere tutti parte di un sistema, finché si era in campo, finché si era nello spogliatoio. E non avrebbe potuto chiedere di meglio che questo.

Mentre osservava gli ultimi istanti della partita seduto vicino alla panchina, stravolto dal male, si sentiva alla fine di un viaggio di cui era stato spettatore, e che l’aveva di continuo messo di fronte ai propri limiti, al non essere nessuno, una condizione che lui aveva voluto, e dalla quale alla fine di quei mesi freddi, trascinatosi per campi gelidi e piogge che seccavano la testa, non era mai riuscito veramente a tirarsi fuori con le proprie forze. Lo vedeva mentre il suo fisico scivolava in una condizione di inazione pigra, nonostante lui si sentisse sempre meglio; lo vedeva mentre in campo si trascinava, e il suo cervello pensava cose che le gambe non riuscivano a fare, e restavano confinate in un terminal di incomunicabilità che lo facevano apparire un goffo giullare, con il pallone che gli scivolava dal controllo come una saponetta, e si ritrovava a terra più spesso di quando riuscisse a partire in progressione, dopo un contrasto con compagni o avversari più bassi di lui. Per questo, il più delle volte, non sentiva il suo nome pronunciato nella formazione dei titolari, in quei pochi minuti prima di entrare in campo, ed in quel momento la sua settimana di sforzi riceveva un altro brusco no del quale poteva incolpare solo sé stesso, il non essere riuscito a fare abbastanza, l’essere in ritardo di condizione, il non essere mai riuscito a dimostrare che quel passaggio sbagliato sapeva benissimo farlo giusto, che quella linea immaginaria che aveva disegnato in campo non l’aveva vista solo lui. Quella finale però, quella ultima partita di coppa a promozione ormai guadagnata, l’aveva giocata, prima di arrendersi alla sua infiammazione.

Guardava i compagni che stavano piegando di nuovo l’avversario, senza il suo aiuto, in una stagione in cui il piano della partita si era sempre inclinato a loro favore, in quelle circostanze eccezionali in cui la magia sembra guardare dalla tua parte. Ma qualche sguardo lo gettava anche verso gli spalti, perché quella non era una partita come le altre, era la finale di coppa e si giocava in uno stadio vero, uno stadio per squadre vere e giocatori veri. Guardava gli spalti e non riconosceva nessuno, e d’improvviso, in quella dimensione stagna che aveva sigillato si era accorto di desiderare una falla attraverso cui passasse un versamento della sua vita, che lo riconoscesse come un fallito sì, ma un fallito che ci aveva provato. E per quanto lui si sentisse comunque di aver mancato gli obiettivi che si era prefissato in questo tentativo di prendere una strada parallela, erano campioni. L’arbitro aveva fischiato la fine, gli spalti applaudivano, stavano alzando una coppa come si vedeva fare in televisione, ed era una sensazione che a trent’anni avrebbe pensato più fioca, più ragionevole, e invece lo stava invasando dentro, anche se persistevano sacche di sangue amaro mentre urlava, sorrideva e gioiva guardando il pubblico e non riconoscendo nessun volto, nessuno che potesse incrociare la sua gioia e riconoscerla come autentica, leggere nella sua espressione la soddisfazione magra di aver contribuito a una vittoria pur fallendo individualmente.

Era appena uscito di casa, alle dieci passate, e camminava lungo il fiume. Pensò che forse avrebbe detto a lei che ci era rimasto male per non averla vista alla partita, ma forse non aveva il diritto, di punto in bianco, di decidere che quell’esperienza solo sua doveva essere anche di altri. L’estate stava per iniziare, sarebbe stata un’estate diversa dalle altre, la prima estate in cui avrebbe conosciuto la sensazione di non farcela proprio, non solo negli allenamenti, e il fiume vicino a casa lo seguiva con la corrente accompagnandolo sottobraccio come un vedovo fuori dal cimitero.

Finita quell’estate, se lo avesse saputo prima, forse non avrebbe creduto di sentire di nuovo quel desiderio di nuovo inizio in un campo falciato e innaffiato, con il gesso delle linee appena steso, e forse si sarebbe sentito davvero troppo vecchio ormai per correre sotto i getti d’acqua. Ma al momento, l’unica cosa che riusciva a pensare era che forse aveva chiesto troppo a sé stesso e a quella nuova avventura in cui poteva essere lontano da tutto, e che forse non desiderava davvero stare solo, con un pallone tra i piedi, e dei compagni a cui passarlo indifferentemente. Perché se ce l’aveva con la sua ragazza che non si era presentata alla partita, se aveva ripensato alla madre che non l’aveva mai incoraggiato a riuscire in una cosa che rendeva felice lui ma non lei, forse non era riuscito così tanto a distaccarsi, e forse aveva scelto il contesto sbagliato, il momento sbagliato e l’età sbagliata per rimanere solo.

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Written by Marco Vezzaro

Copywriter & Editor | Volevo fare il calciatore ma è troppo tardi, vorrò fare lo scrittore fino a quando non sarà troppo tardi | http://marcovezzaro.com

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